giovedì 28 febbraio 2019

Afghanistan

dalla pagina https://www.panorama.it/news/esteri/afghanistan-fallimento-missione-onu-1000-miliardi/

Afghanistan, il fallimento di una 
missione da 1000 miliardi

Tanto è costata in 17 anni la spedizione Onu a Kabul, finita male

Maurizio Tortorella


Morire per l’Afghanistan? O ritirarsi dall’Afghanistan? Dalla fine di gennaio, la doppia opzione è un tema di cui si parla senza vergogna sulle due sponde dell’Atlantico, negli Stati Uniti e in Italia. E la seconda strada comincia a sembrare decisamente più larga. Il presidente americano Donald Trump vorrebbe andarsene da Kabul, anche perché ha capito che con i talebani non c’è nulla da fare. E nel governo italiano il ministro della Difesa Elisabetta Trenta ha chiesto al Comando operativo interforze di valutare «l’avvio di un ritiro del contingente italiano in un orizzonte temporale che potrebbe essere quello di 12 mesi».
È indubbio che la missione Nato, partita nel novembre 2001 come ritorsione americana per l’attacco alle torri gemelle di New York, dopo 17 anni è miseramente fallita: nessuno riesce a prendere le roccaforti talebane, asserragliate sui monti e difese da un territorio ostile come il Vietnam e aspro come la Luna. E anzi gli annunci dell’abbandono dell’Afghanistan prendono atto dell’impossibilità di reggere la pressione talebana, che cresce ogni giorno di più. Del resto, già tre alleati importanti (la Francia e la Spagna nel 2014, il Canada nel 2017) si sono ritirati da quel teatro di guerra. Proprio come, prima di loro, 40 anni fa avevano miseramente fatto i generali sovietici; e come nell’Ottocento era capitato per tre volte, ingloriosamente, anche agli strateghi inglesi.
Per ammantare di qualche impropria onorabilità la dura sconfitta, il negoziatore statunitense Zalmay Khalilzad ha da poco annunciato un «quasi accordo» con i guerriglieri: in cambio di una ritirata generale, questi s’impegnerebbero a non trasformare il Paese in un santuario del terrorismo e a riconoscere il legittimo governo afghano. Ma tutti sanno che l’intesa è nonsense, una finzione scenica: dichiarando oggi il loro futuro disimpegno, è del tutto improbabile che gli americani possano raggiungere anche il minimo accordo con i talebani, che a questo punto sanno in partenza di avere vinto il conflitto. Tanto più che, senza gli aiuti della Nato, il povero governo di Kabul e le sue forze armate non potranno certo reggere all’inarrestabile espansione dei muhjaiddin, padroni ormai di quasi metà del Paese.
Certo, c’è però un grosso problema, che è insieme politico e morale: se l’Occidente dovesse davvero decidere di lasciare l’Afghanistan, abbandonerebbe anche 35 milioni di civili in balia dei fondamentalisti islamici più crudeli della Terra, e si perderebbero così tutte le conquiste faticosamente raggiunte in termini di diritti civili e di modernità. Soprattutto questo vale per la popolazione femminile, la ritirata equivarrebbe a sprofondare nel cupo Medioevo misogino degli imam, gli stessi che vorrebbero vietare ai bambini di Kabul di giocare e di lanciare in cielo gli aquiloni.
Un bilancio astronomico
Ma purtroppo c’è un altro problema, che sull’altro piatto della bilancia afghana pesa sempre di più. E non sono tanto i morti, anche se la stima complessiva delle perdite della coalizione in Afghanistan disegna una mezza ecatombe, con 3.542 militari deceduti in questi 17 anni, 54 dei quali italiani. No, il vero problema è (oscenamente) economico. Nell’ottobre 2017 era stato stimato che i 14 Paesi che hanno partecipato alle tre successive operazioni Nato (Enduring freedom dal 2001 al 2006, Isaf fino al 2014, Resolute support dal 2015 a oggi) avevano speso 900 miliardi di dollari: questo lascia stimare che la cifra si sia molto avvicinata ai mille miliardi.
continua... 

sabato 23 febbraio 2019

MEMORIA: I Colpi di stato appoggiati dagli Stati Uniti in America Latina dal 1948 ad oggi

dalla pagina https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-memoria_i_colpi_di_stato_appoggiati_dagli_stati_uniti_in_america_latina_dal_1948_ad_oggi/82_27279/

Per rinfrescarci la memoria, ricordiamo il ruolo decisivo che Washington ha avuto in quasi tutti i colpi di stato in America Latina 

Gli Stati Uniti ha avuto un ruolo da protagonista in decine di colpi di stato in tutto il mondo, in particolare in America Latina.

Sebbene Washington abbia negato al momento la sua partecipazione al rovesciamento dei governi, i documenti declassificati anni dopo dalle proprie istituzioni rivelano il contrario.
Recentemente, il Venezuela ha denunciato un colpo di stato in corso nel paese, organizzato dagli Stati Uniti, dopo l'auto-proclamazione del vice Juan Guaidó come "presidente in carica".

Il parlamentare ha annunciato che il prossimo sabato costringeranno l'ingresso di "aiuti umanitari" nel territorio venezuelano, qualcosa che Caracas ha qualificato come "spettacolo" per giustificare un "intervento militare" e defenestrare il governo di  Nicolás Maduro .


Venezuela 1948 e 2002
 
  • Il 24 novembre 1948 l'allora presidente Rómulo Gallegos fu deposto in Venezuela, dopo 9 mesi al potere, occupando il posto di una giunta militare del governo. Nel Manifesto alla Nazione che circolò pochi giorni dopo, il legittimo presidente riferì che in una caserma a Caracas un membro della Missione militare degli Stati Uniti aveva dato consigli ai golpisti. Più tardi, al suo arrivo a Cuba, in esilio, disse: "Questo colpo ha l'odore del petrolio", in riferimento agli interessi di Washington nel territorio venezuelano.

  • Gli Stati Uniti hanno anche partecipato al colpo di stato, perpetrato l'11 aprile 2002, contro il presidente Hugo Chávez, che però riprese il potere due giorni dopo. Documenti declassificati nel 2006 dall'agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID, il suo acronimo in inglese) hanno rivelato che gruppi politici oppositori del governo di Caracas ricevevano finanziamenti degli Stati Uniti, tra cui il National Endowment for Democracy (NED), un'entità finanziata dal Congresso degli Stati Uniti .

Paraguay 1954

Nel maggio 1954, il generale Alfredo Stroessner condusse un colpo di stato in Paraguay contro il presidente Federico Chaves del Partito Colorado. Si formò un Governo e si tennero le elezioni che il golpista vinse senza opposizione. Prese il potere nell'agosto di quell'anno e prorogò il suo mandato fino al 1989.
Nel libro "Paraguay e Stati Uniti d'America: Alleati distanti" gli statunitensi Frank Mora e Jerry Cooney rivelano che Stroessner ha girato diverse unità militari statunitensi tra maggio e giugno 1953, invitato dal Segretario dell'Esercito Robert Stevens. Sottolineano inoltre che una volta stabilita la dittatura, il Paraguay fu tra i tre principali destinatari degli aiuti statunitensi in America Latina tra il 1954 e il 1961.

Guatemala 1954

Nel giugno dello stesso anno ebbe luogo il colpo di stato contro il presidente guatemalteco Jacobo Árbenz. Documenti declassificati dagli Stati Uniti negli anni '90 dall'Ufficio dello storico del Dipartimento di Stato, hanno rivelato che il colpo di stato era stato organizzato dalla CIA. Il presidente, a capo del Guatemala dal marzo 1951, aveva attuato politiche che davano un maggiore controllo dello stato sulle ricchezze guatemalteche, nonché sulla riforma agraria, che influiva sugli interessi della United Fruit Company (UFC), che aveva migliaia di ettari nel paese centroamericano.

Repubblica Dominicana 1963

Nel settembre del 1963, l'allora presidente democratico della Repubblica Dominicana, Juan Bosch, fu rovesciato sette mesi dopo aver assunto il potere.
Sette anni dopo il colpo di stato, Bosch ha dichiarato in diversi discorsi radiofonici alla radio Tribuna Democrática, che include il Partito di Liberazione Domenicano, che il colpo di Stato "è stato ordinato dalla Missione militare degli Stati Uniti".

Brasile 1964

Il 31 marzo 1964, il Brasile fu teatro di un colpo di stato perpetrato da ufficiali dell'esercito contro il presidente João Goulart, inaugurando un periodo di 21 anni di dittatura.
I documenti dell'archivio di sicurezza nazionale indipendente hanno rivelato nel 2014 che l'allora presidente degli Stati Uniti, John F. Kennedy, ha stabilito contatti con le forze armate brasiliane per prepararsi al colpo di stato militare e che dopo l'assassinio (nel 1963), l'amministrazione Lyndon B. Johnson ha continuato a dare il suo sostegno.

Argentina 1966 e 1976
 
  • Nel giugno 1966, Arturo Illia fu rovesciato in un colpo di stato perpetrato dal suo ex capo dell'esercito, Juan Carlos Onganía. Documenti declassificati della CIA, citati dal quotidiano argentino La Voz, riferitono il comandante del primo corpo d'armata generale Julio Alsogaray, oltre alla data approssimativa del colpo di stato, avrebbe messo i nomi degli ufficiali coinvolti e le  di nuovo governo agli agenti dell'Agenzia di intelligence centroamericana di stanza a Buenos Aires.

  • Nel 1976 fu organizzato un altro colpo, questa volta contro l'allora presidente María Estela Martínez de Perón. "I preparativi per il colpo di stato sono pronti. Le navi e i membri della Marina sono stati schierati in punti strategici in tutto il paese per controllare possibili disordini dopo la presa del potere", si legge dice uno dei rapporti, declassificati nel 2016, che la CIA mandò all'allora presidente degli Stati Uniti Gerald Ford, il 5 marzo 1976, 19 giorni prima del golpe.

Bolivia 1971

Il 21 agosto 1971, il militare Hugo Banzer Suárez guidò il colpo di stato contro  Juan José Torres, che è ricordato come un nazionalista e rivoluzionario boliviano.
Diversi documenti , declassificati nel 2010 e pubblicati sul sito web dell'Ufficio storico del Dipartimento di Stato hanno rivelato la partecipazione di Washington nel colpo di stato, con il consenso diretto del presidente Richard Nixon e dell'allora Segretario di Stato Henry Kissinger .


Uruguay 1973

Due anni dopo dai golpe in Bolivia, la CIA partecipò attivamente al colpo di stato in Uruguay.
L'azione fu guidata dall'allora presidente, Juan María Bordaberry, con il sostegno delle forze armate. Dopo aver sciolto le Camere deputati e senatori del Congresso uruguaiano e stabilito un governo de facto, rimase come presidente fino al 1976 e fu sostituito da un'altra dittatura militare che proseguì fino al 1985.
Nel suo libro 'Deadly Deceits: My 25 years in the CIA' ('Inganni mortali: I miei 25 anni nella CIA '), l'ex agente Ralph W. McGehee ha rivelato che quattro anni prima del colpo di stato le autorità statunitensi furono inviate in Uruguay e l'agente dell'FBI Dan Mitrione, che consigliava gli agenti locali sulla tortura dei sovversivi; ecco perché è stato rapito e ucciso dai gruppi rivoluzionari.
Commenta anche che la CIA ha cooperato prima e durante la dittatura. In particolare, si sostiene che sia stata associata in Uruguay con "gli squadroni della morte" e di "avere il controllo sulle liste dei più importanti attivisti di sinistra", fornendo i nomi delle loro famiglie e dei loro amici.

Cile 1973

Documenti declassificati consegnati al Museo della memoria e dei diritti umani del Cile e pubblicati dalla National Security Archive hanno rivelato che gli Stati Uniti intervennero nella destabilizzazione del governo di Salvador Allende e nel suo rovesciamento nel settembre 1973, e collaborò con la successiva dittatura militare guidata da Augusto Pinochet.

El Salvador 1979

Il 15 ottobre 1979, il presidente salvadoregno, Carlos Humberto Romero, fu rovesciato da un colpo di stato guidato da giovani soldati. Questo episodio ha generato una successiva guerra civile che è durata 12 anni e ha lasciato almeno 70.000 persone morte e altre migliaia sono scomparse.
In un documento pubblicato sul portale AlterNet, il giornalista Alex Henderson sottolinea che gli Stati Uniti hanno sostenuto la giunta militare che fu istituita. Quel governo di fatto usava gli squadroni della morte creati, addestrati, armati e controllati dalla CIA e dalle forze speciali statunitensi.

Panama 1989

Il 20 dicembre 1989, più di 20.000 soldati statunitensi entrarono a Panama via terra, mare e aria, in un'operazione che fu chiamata "giusta causa" e che aveva l'obiettivo di catturare Manuel Antonio Noriega, ultimo militare nel dirigere la dittatura che era stata stabilita nel paese dal 1968.
Noriega era passato dall'essere un alleato degli Stati Uniti. e collaborare con la CIA e la Drug Control Administration (DEA), per diventare loro nemico; dopo, tra le altre cose, la chiusura della Scuola delle Americhe degli Stati Uniti, accademia militare dove si formarono diversi dittatori dell'America Latina e che lavorò in territorio panamense dal 1946.
Prima dell'invasione, gli USA hanno cospirato contro Panama in altre aree, con l'obiettivo di generare una maggiore destabilizzazione. Nell'aprile del 2017, l'analista internazionale Julio Yao ha scritto   in La Estrella de Panamá che nel 1989 ha appreso di un documento intitolato "Memorandum sensibile-segreto del Consiglio di sicurezza nazionale", datato 8 aprile 1986, che ha determinato la politica di Washington contro Panama e che includeva "una campagna di azioni segrete per destabilizzare" il paese centroamericano, accusando le Forze di Difesa, "in particolare il generale Noriega, di traffico di droga".

Perù 1992

Il 5 aprile 1992, l'allora presidente del Perù, Alberto Fujimori, fece un "auto-colpo di Stato" nel suo paese, con il sostegno delle Forze Armate. il presidente sciolse il Congresso e imprigionò tutti i membri della Corte Suprema di Giustizia.
L'autogolpe è stato sostenuto dal suo consigliere presidenziale e dal capo del Servizio nazionale di intelligence del Perù Vladimiro Montesinos. Secondo una rivelazione segreta del 16 agosto 1990 diretto dall'ambasciata degli Stati Uniti a Lima al Dipartimento di Stato, alla Drug Control Administration (DEA) e alla Defense Intelligence Agency (DIA), a quale ha avuto accesso il quotidiano peruviano La República, da allora le autorità statunitensi erano a conoscenza del colpo futuro.
Un'indagine di 'The Center for Public Integrity', con sede a Washington, ha rivelato lo stretto legame tra Montesinos e la CIA. L'agenzia statunitense è stato foraggiato tra il 1990 e il 2000 con non meno di 10 milioni di dollari in contanti.

Haiti 2004

Il 29 febbraio 2004, il presidente di Haiti, Jean-Bertrand Aristide, fu costretto a lasciare il suo paese.
Dalla Repubblica Centrafricana, dove fu prelevato, Aristide dichiarò che un gruppo di americani "militari" era venuto nella sua residenza a Port-au-Prince e lo costrinse a firmare un documento attraverso il quale egli cedette poi il potere. Aggiunse che fu minacciato che avrebbero fatto fuoco sulla popolazione se si fosse rifiutato di farlo.
"Erano pronti ad attaccare, migliaia di persone sarebbero state uccise, non avrei potuto permetterlo", ha aggiunto.

Honduras 2009

Nel giugno 2009 è stato perpetrato un altro colpo di stato, questa volta in Honduras, contro il presidente Manuel Zelaya.

Un anno dopo l'evento, Zelaya dichiarò che anche se gli Stati Uniti hanno negato la loro connessione con il rovesciamento e l'Ambasciata di Washington ha condannato il fatto, la Casa Bianca era dietro al colpo di stato
"Le menti di questo crimine sono causa di una cospirazione dei vecchi falchi di Washington con i proprietari di capitale dell'Honduras e soci delle società controllate, americane e agenzie finanziarie", dichiarò l'allora presidente.

 

domenica 17 febbraio 2019

Da Hiroshima a oggi, la corsa agli armamenti

riproponiamo un articolo di un anno fa... 

da il manifesto del 20 febbraio 2018
dalla pagina https://ilmanifesto.it/da-hiroshima-a-oggi-la-corsa-agli-armamenti/

Scaffale. «Guerra Nucleare. Il giorno prima» di Manlio Dinucci, edito da Zambon. È la storia di una potenza distruttiva tale da cancellare la specie umana e quasi ogni altra forma di vita dalla faccia della Terra, sconvolgendone l’intero ecosistema

di 

La lancetta dell’«Orologio dell’Apocalisse» – il segnatempo che sul Bollettino degli Scienziati Atomici statunitensi indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare – è stata spostata da 3 a mezzanotte nel 2015 a 2 minuti nel 2018. Tale fatto passa però inosservato o, comunque, non suscita particolari allarmi.
Sembra di vivere in un film, in particolare in The Day After (1983), in quella cittadina del Kansas dove la vita scorre tranquilla accanto ai silos dei missili nucleari, con la gente che il giorno prima ascolta distrattamente le notizie sul precipitare della situazione internazionale, finché vede i missili lanciati contro l’Urss e poco dopo spuntare i funghi atomici delle testate nucleari sovietiche.
Questa la presentazione (e motivazione) del libro di Manlio Dinucci Guerra Nucleare. Il giorno prima (Zambon Editore, pp.304, euro 15). Il testo, molto documentato e allo stesso tempo di agevole lettura, ricostruisce la storia della corsa agli armamenti nucleari dal 1945 ad oggi, sullo sfondo dello scenario geopolitico mondiale, contribuendo a colmare il vuoto di informazione su questo tema di vitale importanza.
UNA STORIA, quella della Bomba, che potrebbe mettere fine alla Storia: per la prima volta è stata creata nel mondo una potenza distruttiva tale da cancellare la specie umana e quasi ogni altra forma di vita dalla faccia della Terra, sconvolgendone l’intero ecosistema. Dal 1945, l’anno in cui con il bombardamento atomico Usa di Hiroshima e Nagasaki inizia la corsa agli armamenti nucleari, al 1991, l’anno in cui la disgregazione dell’Unione Sovietica segna la fine della guerra fredda, vengono fabbricate circa 125mila testate nucleari con una potenza complessiva equivalente a quella di oltre un milione di bombe di Hiroshima. In stragrande parte dagli Stati uniti e dall’Unione sovietica, il resto da Francia, Gran Bretagna, Cina, Pakistan, India, Israele e Sudafrica (l’unico paese che rinuncerà in seguito a tali armi). Più volte si corre il rischio di una guerra nucleare per errore, mentre i test nell’atmosfera e le fuoriuscite di radioattività provocano enormi danni ambientali e sanitari.
Con la fine della guerra fredda, i trattati vengono sempre più svuotati di reale contenuto fondamentalmente a causa del tentativo degli Stati uniti di accrescere il loro vantaggio strategico sulla Russia. E mentre la Nato si espande fin dentro il territorio dell’ex Urss, e le forze statunitensi e alleate passano di guerra in guerra presentata ai subalterni governati e teleguidati spesso come «umanitaria» (Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia e altre), la corsa agli armamenti nucleari, trainata dagli Stati uniti, si sposta sempre più dal piano quantitativo a quello qualitativo, ossia sul tipo di piattaforme di lancio (da terra, dal mare, dall’aria e probabilmente anche dallo spazio esterno) e sulle capacità offensive delle testate nucleari. Nel frattempo si aggiunge alle potenze nucleari la Corea del Nord.
SI ARRIVA COSÌ alla fase odierna, resa ulteriormente pericolosa dalla nuova dottrina nucleare degli Stati uniti. Dalla strategia della «mutua distruzione assicurata» (il cui acronimo Mad equivale alla parola inglese «pazzo») – adottata durante la guerra fredda quando ciascuna delle due superpotenze sapeva che, se avesse attaccato l’altra con armi nucleari, sarebbe stata a sua volta distrutta – il Pentagono passa alla strategia del first strike (primo colpo), cercando di acquisire la capacità di disarmare la Russia con un attacco di sorpresa. Grazie alle nuove tecnologie – scrive Hans Kristensen della Federazione degli scienziati americani – la capacità distruttiva dei missili balistici Usa si è triplicata.
ARMI NUCLEARI, sistemi spaziali, aerei robotici e cyber-armi vengono sempre più integrati, insieme ai mezzi di guerra elettronica e allo «scudo anti-missili», installato ormai in Polonia e con riarmo atlantico di tutti i Paesi dell’est, vale a dire dell’ex Patto di Varsavia che si è da tempo sciolto, nel 1995, mentre la Nato non solo non si estingue ma diventa sempre più l’unica sede della politica estera dell’inesistente Unione europea. Come contromisura la Russia sta rimuovendo sempre più i missili balistici intercontinentali dai silos, vulnerabili da un first strike, installandoli su lanciatori mobili tenuti costantemente in movimento per sfuggire ai satelliti militari e a un eventuale attacco missilistico di sorpresa.
Nel crescente confronto nucleare l’Italia – che sembra vivere nella «tranquilla» cittadina del Kansas del film Day after – è in prima fila, avendo sul proprio territorio bombe statunitensi B-61 che, dal 2020. saranno rimpiazzate dalle ancora più pericolose B61-12.
OCCORRE BATTERSI in campo aperto perché l’Italia cessi di violare il Trattato di non-proliferazione, imponendo agli Stati uniti di rimuovere immediatamente le loro armi nucleari dal nostro territorio nazionale, e contemporaneamente perché l’Italia, liberandosene, aderisca al Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari. Questo è l’unico modo concreto che abbiamo in Italia per contribuire alla eliminazione delle armi nucleari dalla faccia della Terra. A proposito: c’è qualcuno che nei programmi elettorali ha questo all’ordine del giorno? Sarebbe, tra le poche l’unica promessa accettabile. Finché siamo in tempo, il giorno prima.


lunedì 4 febbraio 2019

Corsa al riarmo: "opzione" nucleare

da il manifesto del 03.02.2019
dalla pagina https://ilmanifesto.it/il-pericolo-del-ritorno-deollopzione-nucleare/

Il pericolo del ritorno dell’opzione nucleare

Corsa al riarmo. «Un’opzione come l’aria condizionata in automobile», scriveva Luigi Pintor in uno dei suoi editoriali dopo l’11 settembre. Quell’articolo iniziava con queste parole: «Non ammetto che l’opzione nucleare sia un’opzione. Non ammetto che il ministro della difesa americano la metta nel conto. Non ammetto che un telegiornale prospetti questa eventualità tra la pubblicità di un dentifricio e una previsione meteorologica»
di 

È suggestivo e inquietante, molto più che un avvincente romanzo spionistico, il racconto di un presidente degli Stati uniti pupazzo e agente del Cremlino. Indubbiamente fa presa. E fosse una bufala? C’è solo da aspettare un po’ per appurarlo, quando l’inchiesta condotta dal silenzioso e operoso Mueller svelerà quanto c’è di fondato e quanto di romanzato in quel che si dice e si scrive a proposito di Donald Trump, a partire dalla sua fortunata campagna presidenziale in poi.
Nel frattempo, in attesa del verdetto dell’inflessibile special counsel, è consigliabile la lettura di certe cifre riguardanti il complesso militare-industriale (definizione di Eisenhower), unite alla lista delle misure prese nei confronti di Mosca da parte dell’attuale amministrazione. Esercizio istruttivo, al termine del quale vien da pensare che non c’è miglior nemico del migliore amico del presidente, per chi lavora oggi con Trump nel campo della guerra, che è il più importante comparto economico americano.
Mai così florido, mai in forma così smagliante. Mai così quintessenziale. Basti dire che il segretario alla difesa reggente, dopo l’allontanamento del generale Jim Mattis, è Patrick Shanahan, trent’anni trascorsi ai vertici della Boeing, il secondo fornitore del Pentagono. Non solo di aerei, ma anche di missili e di sistemi d’arma che sono al centro del pacchetto di trilioni destinati all’ammodernamento dell’arsenale nucleare, che seguirà il ritiro degli Usa – in esecuzione a partire da oggi – dal trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) sulle armi nucleari firmato da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov nel 1987.
Con amici così, Putin può star tranquillo.
D’altra parte, il suo agente a Washington gli aveva già manifestato la sua sottomissione con la conferma delle sanzioni economiche dopo l’annessione della Crimea; con il sostegno a una forza di rapido impiego della Nato, trentamila soldati, schierati contro un ipotetico attacco russo; con l’aumento dal 2 al 4 per cento delle spese militari imposto agli alleati atlantici. E poi con la fornitura di armi all’Ucraina, che Obama aveva negato.
Con il mancato ritiro, dopo l’annuncio, dalla Siria, mentre, che si sappia, neppure uno dei 50.000 militari americani di stanza in Europa è riuscito tornare a casa, nonostante i proclami del presidente filorusso.
Più la ciliegina dell’ingresso del Montenegro nella Nato che, come scrive The American Conservative, «è evidentemente irrilevante per la sicurezza nazionale statunitense», ma è un chiaro segnale ostile nei confronti di Mosca.
Ma, s’obietta, il vero obiettivo del ritiro dall’Inf non è la Russia di Putin, è la Cina di Xi. Potenza nucleare del Pacifico, la regione dove si gioca la grande partita strategica, ma potenza fuori dei trattati firmati da Usa e Russia, dotate di missili intercontinentali e di immensi arsenali atomici.
Oggi Pechino è in cima alla lista degli avversari dell’America di Trump. Sì, si può anche ragionare sui reali obiettivi a breve e medio termine della mossa del presidente statunitense. Il che però non può distogliere l’attenzione dagli effetti incontrollabili che essa produce, aprendo di fatto la strada a una giungla atomica.
A una corsa illimitata al nucleare. Innanzitutto da parte della Russia che vede saltare un accordo di cui è contraente principale.
Fosse anche vero che non è il bersaglio numero uno, non può stare ferma, nella logica della reciproca deterrenza. Una corsa che vede impegnate anche altre medie e piccole potenze nucleari, nelle diverse aree del mondo, e ovviamente la Cina in primis. Quali vincoli possono essere imposti se i due giganti militari rompono il patto? Quale limite può essere posto, chi può porlo, all’impiego di armi nucleari tattiche?
Con questo «libera tutti», il ricorso all’atomica dunque torna a essere «un’opzione». Dopo le torri gemelle, era stata l’amministrazione Bush a mettere sul tavolo delle «opzioni» possibili l’uso dell’arma nucleare.
Dopo il crollo dell’Urss, fino all’11 settembre, quell’idea sembrava destinata a diventare, se non un tabù, un’ipotesi militare, certo non politica, dentro una residuale logica di deterrenza.
Finita l’era Bush, con Obama sembrava che ci si potesse di nuovo avviare verso un mondo addirittura post-atomico. Adesso torna l’idea dell’«opzione» nucleare.
«Un’opzione come l’aria condizionata in automobile», scriveva Luigi Pintor in uno dei suoi editoriali dopo l’11 settembre.
Quell’articolo iniziava con queste parole: «Non ammetto che l’opzione nucleare sia un’opzione. Non ammetto che il ministro della difesa americano la metta nel conto. Non ammetto che un telegiornale prospetti questa eventualità tra la pubblicità di un dentifricio e una previsione meteorologica».
Parole indimenticabili. Oggi ancora più inquietanti, in un mondo in cui si sfarinano gli ultimi residui di misure condivise a tutela dell’equilibrio nucleare.

sabato 2 febbraio 2019

Nuovi missili nucleari USA in Italia ed Europa

da il manifesto del 2/2/2019
dalla pag. https://ilmanifesto.it/laffossamento-usa-con-la-complicita-delleuropa/


L’affossamento Usa con la complicità dell’Europa


Usa/Russia. Anche l’Unione europea ha dato luce verde alla possibile installazione di nuovi missili nucleari Usa in Europa, Italia compresa. Su una questione di tale importanza il governo Conte, come i precedenti, si è accodato sia alla Nato che alla Ue. E dall’intero arco politico non si è levata una voce per richiedere che fosse il Parlamento a decidere come votare all’Onu sul Trattato Inf

di Manlio Dinucci


La «sospensione» del Trattato Inf, annunciata ieri dal segretario di stato Pompeo, avvia il conto alla rovescia che in sei mesi porterà gli Usa a uscire dal Trattato. Già da oggi, comunque, gli Usa si ritengono liberi di testare e schierare armi della categoria proibita dal Trattato.
Si tratta di missili nucleari a gittata intermedia (tra 500 e 5500 km), con base a terra. Appartenevano a tale categoria i missili nucleari schierati in Europa negli anni Ottanta: i missili balistici Pershing 2, schierati dagli Stati uniti in Germania Occidentale, e quelli da crociera lanciati da terra, schierati dagli Stati uniti in Gran Bretagna, Italia, Germania Occidentale, Belgio e Olanda, con la motivazione di difendere gli alleati europei dai missili balistici SS-20, schierati dall’Unione sovietica sul proprio territorio.
Il Trattato sulle Forze nucleari intermedie, firmato nel 1987 dai presidenti Gorbaciov e Reagan, eliminava tutti i missili di tale categoria, compresi quelli schierati a Comiso. Il Trattato Inf è stato messo in discussione da Washington quando gli Stati uniti hanno visto diminuire il loro vantaggio strategico su Russia e Cina. Nel 2014, l’amministrazione Obama accusava la Russia, senza portare alcuna prova, di aver sperimentato un missile da crociera (sigla 9M729) della categoria proibita dal Trattato e, nel 2015, annunciava che «di fronte alla violazione del Trattato Inf da parte della Russia, gli Stati uniti stanno considerando lo spiegamento in Europa di missili con base a terra».
Il piano è stato confermato dall’amministrazione Trump: nel 2018 il Congresso ha autorizzato il finanziamento di «un programma di ricerca e sviluppo di un missile da crociera lanciato da terra da piattaforma mobile su strada». Da parte sua, Mosca negava che il suo missile da crociera violasse il Trattato e, a sua volta, accusava Washington di aver installato in Polonia e Romania rampe di lancio di missili intercettori (quelli dello «scudo»), che possono essere usate per lanciare missili da crociera a testata nucleare. In tale quadro va tenuto presente il fattore geografico: mentre un missile nucleare Usa a raggio intermedio, schierato in Europa, può colpire Mosca, un analogo missile schierato dalla Russia sul proprio territorio può colpire le capitali europee, ma non Washington.
Rovesciando lo scenario, è come se la Russia schierasse in Messico i suoi missili nucleari a raggio intermedio.
Il piano degli Usa di affossare il Trattato Inf è stato pienamente sostenuto dagli alleati europei della Nato. Il Consiglio Nord Atlantico ha dichiarato, il 4 dicembre 2018, che «il Trattato Inf è in pericolo a causa delle azioni della Russia», accusata di schierare «un sistema missilistico destabilizzante». Lo stesso Consiglio Nord Atlantico ha dichiarato ieri il suo «pieno appoggio all’azione degli Stati uniti di sospendere i suoi obblighi rispetto al Trattato Inf» e intimato alla Russia di «usare i restanti sei mesi per ritornare alla piena osservanza del Trattato».
All’affossamento del Trattato Inf ha contribuito anche l’Unione europea che, all’Assemblea generale delle Nazioni unite, il 21 dicembre 2018, ha votato contro la risoluzione presentata dalla Russia sulla «Preservazione e osservanza del Trattato Inf», respinta con 46 voti contro 43 e 78 astensioni. L‘Unione europea – di cui 21 dei 27 membri fanno parte della Nato (come ne fa parte la Gran Bretagna in uscita dalla Ue) – si è uniformata così totalmente alla posizione della Nato, che a sua volta si è uniformata a quella degli Stati uniti.
Nella sostanza, quindi, anche l’Unione europea ha dato luce verde alla possibile installazione di nuovi missili nucleari Usa in Europa, Italia compresa. Su una questione di tale importanza il governo Conte, come i precedenti, si è accodato sia alla Nato che alla Ue. E dall’intero arco politico non si è levata una voce per richiedere che fosse il Parlamento a decidere come votare all’Onu sul Trattato Inf.
Né in Parlamento si è levata alcuna voce per richiedere che l’Italia osservi il Trattato di non-proliferazione e aderisca a quello Onu sulla proibizione delle armi nucleari, imponendo agli Usa di rimuovere dal nostro territorio nazionale le bombe nucleari B61 e di non installarvi, a partire dalla prima metà del 2020, le ancora più pericolose B61-12.
Avendo sul proprio territorio armi nucleari e installazioni strategiche Usa, come il Muos e il Jtags in Sicilia, l’Italia è esposta a crescenti pericoli quale base avanzata delle forze nucleari Usa e quindi quale bersaglio di quelle russe.
Un missile balistico nucleare a raggio intermedio, per raggiungere l’obiettivo, impiega 6-11 minuti. Un bell’esempio di difesa della nostra sovranità, sancita dalla Costituzione, e della nostra sicurezza che il Governo garantisce sbarrando la porta ai migranti ma spalancandola alle armi nucleari Usa.