giovedì 30 maggio 2019

La nave d'assalto dei nuovi crociati

dalla pagina https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/24632554

Comitato promotore della campagna
#NO GUERRA #NO NATO


Manlio Dinucci —  30 MAG 2019

Alla presenza del Capo della Stato Sergio Mattarella. del ministro della Difesa Elisabetta Trenta, del ministro dello sviluppo economico Luigi di Maio, e delle massime autorità militari, è stata varata il 25 maggio nei Cantieri di Castellammare di Stabia (Napoli) la nave Trieste, costruita da Fincantieri.
È una unità anfibia multiruolo e multifunzione della Marina militare italiana, definita dalla Trenta «perfetta sintesi della capacità di innovazione tecnologica del Paese».
Lunga 214 metri e con una velocità di 25 nodi (46 km/h), ha un ponte di volo lungo 230 metri  per il decollo di elicotteri, caccia F-35B a decollo corto e atterraggio verticale e convertiplani V-22 Osprey.
Può trasportare nel suo ponte-garage veicoli blindati per 1200 metri lineari. Ha al suo interno un bacino allagabile, lungo 50 metri e largo 15, che permette alla nave di operare con i più moderni mezzi anfibi della Nato.
In termini tecnici, è una nave destinata a «proiettare e sostenere, in aree di crisi, la forza da sbarco della Marina militare e la capacità nazionale di proiezione dal mare della Difesa».
In termini pratici, è una  nave da assalto anfibio che, avvicinandosi alle coste di un paese, lo attacca con caccia ed elicotteri armati di bombe e missili, quindi lo invade con un battaglione di 600 uomini trasportati, con i loro armamenti pesanti, da elicotteri e mezzi di sbarco.
In altre parole, è un sistema d’arma progettato non per la difesa ma per l’attacco in operazioni belliche condotte nel quadro della «proiezione di forze» Usa/Nato a grande distanza.
La decisione di costruire la Trieste fu presa nel 2014 dal governo Renzi, presentandola quale nave militare adibita principalmente ad «attività di soccorso umanitario».  
Il costo della nave, a carico non del Ministero della difesa ma del Ministero dello sviluppo economico, veniva quantificato in 844 milioni di euro, nel quadro di uno stanziamento di 5.427 milioni per la costruzione, oltre che della Trieste, di altre 9 navi da guerra. Tra queste, due unità navali ad altissima velocità per incursori delle forze speciali in «contesti operativi che richiedano discrezione», ossia in operazioni belliche segrete.
Al momento del varo, il costo della Trieste è stato indicato in 1.100 milioni di euro, oltre 250 in più della spesa preventivata. Il costo finale sarà molto più alto, poiché va aggiunto quello dei caccia F-35B e degli elicotteri imbarcati, più quello di altri armamenti e sistemi elettronici di cui sarà dotata la nave nei prossimi anni.
L'innovazione tecnologica in campo militare – ha sottolineato la ministra della Difesa – «deve essere supportata dalla certezza dei finanziamenti». Ossia da continui, crescenti finanziamenti con denaro pubblico anche da parte del Ministero dello sviluppo economico, ora guidato da Luigi Di Maio. Alla cerimonia del varo, ha promesso agli operai altri investimenti: ci sono infatti da costruire altre navi da guerra.
La cerimonia del varo ha assunto ulteriore significato quando l'ordinario militare, monsignor Santo Marcianò, ha esaltato il fatto che gli operai avevano affisso sulla prua della nave una grande croce, composta da immagini sacre alle quali sono devoti, tra cui quelle di Papa Wojtyła e Padre Pio.
Monsignor Marcianò ha elogiato la «forza della fede» espressa dagli operai, che ha benedetto e ringraziato per «questo segno meraviglioso che avete messo sulla nave».
È stata così varata la grande nave da guerra portata a esempio della capacità di innovazione del nostro paese, pagata dal Ministero dello sviluppo economico con i nostri soldi sottratti a investimenti produttivi e spese sociali, benedetta col segno della Croce come all’epoca delle crociate e delle conquiste coloniali.
(il manifesto, 28 maggio 2019)
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per un’Italia neutrale

venerdì 24 maggio 2019

RAND CORP: COME ABBATTERE LA RUSSIA

dalla pagina https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/24602100?cs_tk=AiUJ7dC1tgs6LA2o6lwAAXicyyvNyQEABF8BvBPwm0Qr_C-v6PNbW0QWFyA%3D

23 MAG 2019 — Manlio Dinucci
Costringere l’avversario a estendersi eccessivamente per sbilanciarlo e abbatterlo: non è una mossa di judo ma il piano contro la Russia elaborato dalla Rand Corporation, il più influente think tank Usa che, con uno staff di migliaia di esperti, si presenta come la più affidabile fonte mondiale di intelligence e analisi politica per i governanti degli Stati uniti e i loro alleati.
La Rand Corp. si vanta di aver contribuito a elaborare la  strategia a lungo termine che permise agli Stati uniti di uscire vincitori dalla guerra fredda, costringendo l’Unione Sovietica a consumare le proprie risorse economiche nel confronto strategico.
A questo modello si ispira il nuovo piano, «Overextending and Unbalancing Russia», pubblicato dalla Rand.
Secondo i suoi analisti, la Russia resta un potente competitore degli Stati uniti in alcuni campi fondamentali. Per questo gli Usa devono perseguire, insieme ai loro alleati, una strategia complessiva a lungo termine che sfrutti le sue vulnerabilità.
Vengono quindi analizzati vari modi per costringere la Russia a sbilanciarsi, indicando per ciascuno le probabilità di successo, i benefici, i costi e rischi per gli Usa.
Gli analisti della Rand ritengono che la maggiore vulnerabilità della Russia sia quella economica, dovuta alla sua forte dipendenza dall’export di petrolio e gas, i cui introiti possono essere ridotti appesantendo le sanzioni e accrescendo l’export energetico Usa.
Si deve far sì che l’Europa diminuisca l’importazione di gas naturale russo, sostituendolo con gas naturale liquefatto trasportato via mare da altri paesi.
Un altro modo per danneggiare nel tempo l’economia della Russia è quello di incoraggiare l’emigrazione di personale qualificato, in particolare giovani russi con un alto grado di istruzione.
In campo ideologico e informativo, occorre incoraggiare le proteste interne e allo stesso tempo minare l’immagine della Russia all’esterno, espellendola da forum internazionali e boicottando gli eventi sportivi internazionali che essa organizza.
In campo geopolitico, armare l’Ucraina permette agli Usa di sfruttare il punto di maggiore vulnerabilità esterna della Russia, ma ciò deve essere calibrato per tenere la Russia sotto pressione senza arrivare a un grande conflitto in cui essa avrebbe la meglio.
In campo militare gli Usa possono avere alti benefici, con bassi costi e rischi, dall’accrescimento delle forze terrestri dei paesi europei della Nato in funzione anti-Russia.
Gli Usa possono avere alte probabilità di successo e alti benefici, con rischi moderati, soprattutto investendo maggiormente in bombardieri strategici e missili da attacco a lungo raggio diretti contro la Russia.
Uscire dal Trattato Inf e schierare in Europa nuovi missili nucleari a raggio intermedio puntati sulla Russia assicura loro alte probabilità di successo, ma comporta anche alti rischi.
Calibrando ogni opzione per ottenere l’effetto desiderato – concludono gli analisti della Rand – la Russia finirà col pagare il prezzo più alto nel confronto con gli Usa, ma anche questi dovranno investire grosse risorse sottraendole ad altri scopi.
Preannunciano così un ulteriore forte aumento della spesa militare Usa/Nato a scapito delle spese sociali.
Questo è il futuro che ci prospetta la Rand Corporation, il più influente think tank dello Stato profondo, ossia del centro sotterraneo del potere reale detenuto dalle oligarchie economiche, finanziarie e militari, quello che determina le scelte strategiche non solo degli Usa ma dell’intero Occidente.
Le «opzioni» previste dal piano sono in realtà solo varianti della stessa strategia di guerra, il cui prezzo in termini di sacrifici  e rischi viene pagato da tutti noi.
(il manifesto, 21 maggio 2019

lunedì 20 maggio 2019

Manda un messaggio al New York Times

dalla pagina https://www.codepink.org/nyt_iran

Dì al New York Times di smetterla di spargere menzogne sull'Iran


sx: "Il Pentagono costruisce un deterrente contro il possibile attacco iraniano"
dx: "Dì al NYT: basta vendere l'idea di una guerra tra USA e Iran"


Dal 2002 al 2003, i media furono colpevoli di vendere la falsa narrazione sulle armi di distruzione di massa dell'Iraq. Ora, Il New York Times lo sta rifacendo. Il Consulente per la Sicurezza Nazionale John Bolton da decenni ha il prurito per la guerra all'Iran. I motivi di Bolton per inviare navi da guerra e i suoi piani di mandare 120mila soldati nel Medio Oriente sono basati su menzogne. Proprio come prima della guerra all'Iraq, il New York Times sta aiutando a vendere la guerra di Bolton al pubblico americano pubblicando disinformazioni diffuse dalla amministrazione Trump. Firma il nostro messaggio e dì al New York Times di non essere complice nel promuovere la guerra di Bolton all'Iran.


firma alla pagina https://www.codepink.org/nyt_iran


venerdì 17 maggio 2019

PROVOCAZIONE DELLA NATO IN ESTONIA

dalla pagina https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/24557387?cs_tk=AniAa6YmMoMOG4vK3

Comitato promotore della campagna
#NO GUERRA #NO NATO


15 MAG 2019 —

VIDEO PRESENTATO DA GIULIETTO CHIESA

Si svolge in Estonia, dal 6 al 17 maggio, l'esercitazione Nato "Tempesta di primavera" con la partecipazione di migliaia di soldati di Stati uniti, Canada, Gran Bretagna, Germania, Francia, Belgio,  Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania,  con cacciabombardieri, elicotteri e blindati.  Vi partecipano anche truppe di tre paesi partner della Nato: Ucraina, Georgia e Finlandia.  Lo scenario è quello della "difesa da un attacco russo".

Truppe Nato in pieno assetto di guerra hanno inscenato un combattimento contro truppe russe tra gli ignari abitanti di una cittadina estone, provocando allarme e  panico anche tra i bambini. 


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per un’Italia neutrale

mercoledì 15 maggio 2019

Armi italiane: commesse più piccole, ma si moltiplicano i clienti

dalla pagina https://ilmanifesto.it/armi-italiane-commesse-piu-piccole-ma-si-moltiplicano-i-clienti/

Internazionale. Il governo Conte ha autorizzato la vendita a Paesi coinvolti in conflitti e violazioni dei diritti umani, dal Qatar all'Egitto. Nessuno stop agli affari militari con l’Arabia saudita: 816 esportazioni nel 2018




Commesse più piccole ma con un parco clienti più vasto, in gran parte verso Paesi non Nato e non Ue, molti dei quali stravolti da violenti conflitti, tra i quali spiccano Qatar, Pakistan, Turchia, Emirati, India, Egitto. È così che l’Italia ha continuato a esportare volumi consistenti di armi – valore annuo complessivo di 5,2 miliardi di euro, inclusa l’intermediazione – in base alla relazione trasmessa dal governo al Parlamento, seppur tardivamente rispetto alle scadenze della legge 185, sulle autorizzazioni alla vendita concesse nel 2018.
Come nota la Rete Disarmo che ieri ha analizzato i dati, siamo di fronte a un calo rispetto all’anno precedente del 53%, e addirittura del 66% rispetto al 2016, ma il livello storicamente molto alto e la moltiplicazione dei Paesi destinatari è «ancora più preoccupante». Il sensibile calo – scrivono gli analisti della Rete – non deve far pensare a una crisi o un rallentamento nella esportazione di armi italiane perché le aziende stanno comunque incamerando contratti e possibili commesse per un valore doppio rispetto alla effettiva capacità già autorizzata.
E anzi, in base a uno studio del professor Maurizio Simoncelli per Rete Disarmo, pubblicato dal sito Sbilanciamoci!, negli ultimi mesi il governo “del Cambiamento” ha firmato una cinquantina di accordi di cooperazione militare bilaterale, incluso con Niger e Corea, in modo da facilitare ulteriormente l’export di armi aggirando la normativa sulla trasparenza prevista nella legge 185.
Nella relazione del 2018 non figurano poi provvedimenti di sospensioni, revoche o dinieghi per esportazioni di armamenti verso l’Arabia saudita che il governo Conte aveva promesso. Al contrario, sono riportate 11 autorizzazioni per l’Arabia saudita e, in un altro allegato, 816 esportazioni.
Documenti semi nascosti indicano quindi tre forniture del valore di 42.139 mila euro, attribuibili alle bombe aree classe MK80 prodotte dalla fabbrica sarda della Rwm Italia che risalgono ad autorizzazioni rilasciate dal governo Renzi per la maxi fornitura a Riyadh di 19.675 bombe del valore di 411 milioni di euro complessivi.
Si tratta delle micidiali bombe aeree della serie MK prodotte a Domusnovas dalla filiale sarda dell’azienda tedesca Rwm con sede legale a Ghedi, Brescia, che vengono impiegate dall’aeronautica militare saudita per bombardare indiscriminatamente lo Yemen.
Un rapporto Onu del gennaio 2017 ha documentato l’uso di questi ordigni nei bombardamenti di zone abitate da civili in Yemen e un secondo rapporto redatto da un gruppo di esperti delle Nazioni unite ha dichiarato che questi raid possono costituire «crimini di guerra». Rete Disarmo ricorda che, insieme ad altre due ong, Mwatana e Ecchr, ha denunciato alla magistratura l’illegalità di queste forniture belliche. L’Egitto del generale Al-Sisi risulta il terzo acquirente di armamenti italiani tra gli Stati non appartenenti a Ue o Nato.
Negli ultimi anni verso il Paese dove ha trovato la morte ancora senza giustizia il ricercatore italiano Giulio Regeni sono state rilasciate 61 licenze per esportazioni di sistemi militari (valore complessivo di 31.400.207 euro).
Dalla relazione – mette in rilievo Rete Disarmo – non è possibile conoscere gli specifici modelli esportati, ma è documentata l’autorizzazione nel 2018 di «armi e armi automatiche di calibro uguale o inferiore a 12,7 mm», di «bombe, siluri, razzi, missili e accessori», di «apparecchiature per la direzione del tiro», di «apparecchiature elettroniche» e di «software».
Nel 2013 il Consiglio degli Affari esteri dell’Ue aveva annunciato la decisione degli Stati membri di «sospendere le licenze di esportazione all’Egitto di ogni tipo di materiale che possa essere utilizzato per la repressione interna», comprensiva di brutali torture come quelle che ha subito Giulio Regeni.

sabato 11 maggio 2019

13/4 - 9/5: Global Day of Action on Military Spending

dalla pagina http://demilitarize.org/gdams-2019/


Global Campaign on
Military Spending

CUT MILITARY SPENDING - 
FUND HUMAN NEEDS

smilitarizzare - investire nei
bisogni della gente 



dati dal sito https://www.sipri.org/databases

LE SPESE MILITARI (dati SIPRI)


FIG. 1: Le spese militari degli 11 Paesi che spendono di più, dal 1988 al 2018:


PNAC (Project for the New American Century - Progetto per il Nuovo Secolo Americano). Tra i suoi fondatori spiccano Cheney e Rumsfeld. 
  • PNAC iniziò i suoi primi passi nella primavera del 1997 in forma di organizzazione non profit, con lo scopo di promuovere "La leadership globale americana"
  • nel settembre 2000, il PNAC pubblicò un rapporto di 90 pagine intitolato Ricostruire le difese dell'America: strategie, forze e risorse per un nuovo secolo (pdf ), "nella convinzione che l'America dovrebbe cercare di preservare ed estendere la sua posizione di leadership globale mantenendo la superiorità delle forze armate USA"
  • fra i vari obiettivi elencati: "AUMENTARE LE SPESE PER LA DIFESA"
  • a p. 51 del rapporto si legge: "[...] il processo di trasformazione, anche se porta un cambiamento rivoluzionario, è probabile che sia un processo lungo, a meno di qualche evento catastrofico e catalitico - come una nuova Pearl Harbor".
E così, vennero pianificati e messi in atto - dopo che Cheney divenne vicepresidente e Rumsfeld nuovamente Segretario alla Difesa - gli attentati dell'11 Settembre 2001, la "Nuova Pearl Harbor", false-flag, inside job, casus belli per iniziare la guerra infinita al nemico ideale, ineffabile e mutevole: il terrorismo. 
Per approfondimenti, leggi anche: http://presenzalongare.altervista.org/911.html).



FIG. 2: Le spese militari 2018 degli 11 Paesi che spendono di più:

L'Italia, all'11mo posto a livello mondiale per le spese militari nel 2018, ha speso oltre 21 miliardi di €, in continuo aumento dal 2015. 
Come descritto nel rapporto MILEX 2018 - Rapporto Sulle Spese Militari Italiane, 21 miliardi corrisponde al bilancio del Ministero della Difesa, ma la spesa militare italiana nel 2018 sfiora i 25 miliardi.


FIG. 3: Le spese militari dal 1988 al 2018 dei 29 Paesi che fanno parte della NATO confrontato con le spese di Cina e Russia:



FIG. 4: Le spese militari 2018 dei 29 Paesi (USA compreso) che fanno parte della NATO confrontato con le spese di USA, Cina e Russia:


Nel 2018 le spese militari:
  • USA (quelle rendicontate) ammontano al 36% della spesa militare mondiale
  • NATO (29 Paesi, USA compreso) ammontano al 54% della spesa militare mondiale.



mercoledì 8 maggio 2019

SIPRI: Le spesa militare mondiale cresce

dalla pagina https://www.sipri.org/media/press-release/2019/world-military-expenditure-grows-18-trillion-2018


World military expenditure grows to $1.8 trillion in 2018




(Stoccolma, 29 aprile 2019) La spesa militare totale mondiale è salita a 1822 miliardi di US$ nel 2018, con un incremento del 2,6% dal 2017, come segnalato da nuovi dati dal SIPRI, Istituto Internazionale di Ricerca per la Pace di Stoccolma. I cinque Paesi che hanno speso maggiormente nel 2018 sono: USA, Cina, Arabia Saudita, India e Francia, che insieme rappresentano il 60% delle spese militari globali. La spesa militare degli USA sono aumentate per la prima volta dal 2010, mentre la spesa della Cina è cresciuta per il 24mo anno di seguito. Tutti gli aggiornamenti annuali dell'archivio dati sulle spese militari del SIPRI sono accessibile da oggi al sito www.sipri.org
La spesa militare globale totale nel 2018 è cresciuta per il secondo anno consecutivo, al massimo livello dal 1988 - il primo anno per il quale dati globali omogenei sono disponibili. La spesa mondiale è ora più alta del 76% rispetto al dato del dopo guerra fredda nel 1998. La spesa militare mondiale nel 2018 rappresenta il 2,1% del PIL globale o US$239 a persona. 
"Nel 2018 la spesa militare di USA e Cina rappresenta metà della spesa militare mondiale", afferma il Dr. Nan Tian, un ricercatore del programma AMEX (Armi e Spese Militari) del SIPRI. "Il livello maggiore della spesa militare nel 2018 è principalmente il risultato degli aumenti significativi di spesa di quei due Paesi". 
continua ... 

giovedì 2 maggio 2019

Il rivoluzionario sogno differito di Martin Luther King

riproponiamo un articolo del gennaio 2018 di Danny Sjursen su Martin Luther King 


 “Stiamo sperimentando l’affiorare di una tripla malattia acuta … [che] è stata in agguato nel nostro Stato fin dall’inizio … le malattie del razzismo, dell’eccessivo materialismo e del militarismo. … la piaga della civiltà occidentale”. — Martin L. King, Aug. 31, 1967

Foto segnaletiche di Martin Luther King Jr. a seguito del suo arresto del 1963 a Birmingham,
Alabama, per le proteste contro il trattamento dei neri (Wikimedia)

Uccidiamo i più belli fra noi—chiunque, pare, riveli gli elementi bruti, più indecenti della società americana e ha l’audacia d’immaginare, addirittura esigere, una rotta migliore: di pace, unità e tolleranza. Abraham Lincoln, Bobby Kennedy, Martin Luther King e tanti altri.
Quest’anno segna il 50° anniversario del tragico assassinio di King, e sebbene innumerevoli pubblicazioni saranno ricolme di commemorazioni e retrospettive di quest’icona fraintesa, per lo più mancheranno il bersaglio. Da tempo cooptato e sterilizzato dai personaggi politici mainstream, il King del ricordo corrente somiglia poco all’uomo reale, radicale e complesso.
Viene ricordato da Democratici e Repubblicani indifferentemente come il leader “buono”, “pacifico” dei diritti civili—nozione utile per mettere in risalto i “cattivi” attivisti del movimento per il potere nero, gli Stokely Carmichael, i Malcolm X e i Huey Newton del mondo. In realtà, le categorie non furono mai così nette, le comunanze sbalorditive.
In certo senso, tutti noi—bianchi e neri, liberal e conservatori—abbiamo il nostro King. Quello provocatorio, quello critico della bigotteria ma anche del capitalismo e della guerra del Vietnam. Il King, in verità, che è stato intenzionalmente nascosto alla vista.
Quando arrivai al dipartimento di storia [nord]americana a West Point nel 2014, mi diedero la cattedra e l’onere didattico dei diritti civili—a me, uomo bianco, eterosessuale, militare. Pareva che chiunque altro avesse studiato la Rivoluzione Americana o la Guerra Civile, e io, beh, feci una figura vagamente progressista e ben disposto, almeno in confronto con i miei pari. Da ex-studente di operazioni contrinsurrezionali in Irlanda del Nord, decisi di lasciar perdere la vecchia borsa di studio ed abbracciare il mio nuovo ruolo. Non mi sono mai guardato indietro. Ho fatto lezione e guidato un’escursione annuale estiva per cadetti per far visita a veterani del movimento qua e là per il sud [degli USA]. Mi trovai immediatamente di fronte una sfida, con due professori di diritto dell’accademia: al grossolano fraintendimento dei cadetti—e di gran parte degli americani—del movimento dei diritti civili e dello stesso Martin Luther King.
Dopo 50 anni, con gli Stati Uniti di nuovo nella morsa del conflitto razziale, di guerre culturali, di una rampante diseguaglianza  e di una guerra globale perpetua, sembra un momento valido come altri di inventariare lo stato dei “tre mali” di King: razzismo, materialismo e militarismo.
Il peccato originale dell’America: razza e privilegio
Il grido di “Potere Nero” è, alla base, una reazione alla riluttanza del potere bianco di fare il tipo di cambiamenti necessari a rendere la giustizia una realtà tangibile per i Neri. Penso che dobbiamo constatare che una sommossa è la lingua dei non ascoltati. E che cos’è che l’America ha mancato di sentire? L’andazzo economico precario dei poveri neri. MLK, 1966
Sono tutte sfide collegate, a proposito. Trattarne ciascuna come separata è privarle del loro ineluttabile potere intrecciato. Il razzismo è un’insensatezza. Non siamo progrediti quanto ci piace credere. Certo, c’è stata la sentenza Brown vs. Board, leggi sui diritti civili ed elettorali, perfino un presidente nero. Cionondimeno, ciascuna di queste vittorie storiche sta venendo rimangiata sotto i nostri occhi. Le scuole sono di nuovo segregate come due generazioni fa. Tribunali conservatori hanno smantellato clausole chiave della Legge sui Diritti Elettorali. Diamine: Jefferson Beauregard Sessions—un uomo troppo razzista per essere giudice del distretto federale [di Columbia: Washington, ndt] negli anni 1980—è a capo del Ministero della Giustizia.
Razza ed impero sono intimamente connessi. A riprova, si guardi solo alla  militarizzazione senza precedenti della polizia nazionale—abbigliata in tuta da campo e a bordo delle stesse autoblindo che guidavamo a Baghdad—e un infinito catalogo di casi di brutalità a sfondo razziale a livello nazionale. L’America sembra due accampamenti armati, fisicamente e intellettualmente isolati fra loro. Da cinquant’anni in una invincibile guerra alla droga tarata razzialmente: sono afroamericani a riemplre le prigioni in questa nazione —che ha il più alto tasso di carcerazione al mondo. Negli USA del 2018 un maschio nero ha una probabilità di reclusione nove volte maggiore che nel paese che lo precede nella lista nera: Cuba. Abbiamo molta strada da fare.
Il King di cui non si parla: anti-capitalista e anti-materialista
I problemi dell’ingiustizia razziale ed economica non si possono risolvere senza una radicale redistribuzione del potere politico ed economico.
I mali del capitalismo sono reali proprio quanto quelli del militarismo e del razzismo —MLK, 1967
Viviamo un momento peculiare, in cui quasi nessun americano leva lo sguardo dallo smartphone abbastanza da accorgersi che sta perdendosi “Real Housewives” [serie tv di successo, ndt]. Il vacuo mondo dell’adorazione delle celebrità e dell’assillo materiale non si presta all’attivismo appassionato che King esigeva. Un capitalismo del libero mercato, sfrenato, reso possibile da democratici liberisti come i Clinton, ha gettato alle ortiche il sogno americano e l’ha reso un incubo inafferrabile per molti: l’evidenza empirica ne è sconcertante.
La diseguaglianza di reddito negli apparentemente egalitari Stati Uniti ha raggiunto il peggior livello dall’Era Dorata. I salari per i lavoratori ristagnano da 40 anni, mente i superricchi si crogiolano in un imbarazzo di ricchezze. Il salario minimo federale vale meno in dollari reali che 50 anni fa.
Eppure è tutto ben peggio che questo. L’ossessivo materialismo e il gran giro di soldi (si pensi alle case farmaceutiche, al petrolio, al fracking) in politica hanno sospinto la cultura americana nella corsia espresso verso il disastro esistenziale. Viviamo in gran parte in una fissazione illusoria, rimuovendo dalla coscienza la tempesta in arrivo del riscaldamento globale con l’inseguire una gratificazione immediata nei click sui social media. Poco dopo che il presidente Trump ritirasse gli USA dagli accordi sul clima di Parigi, la Siria ci si è finalmente associata, rendendo l’America il vero, solitario pariah internazionale. Raddoppiandone realmente l’effetto, Trump ha poi recentemente emanato la Strategia di Sicurezza Nazionale del tutto priva del cambiamento  climatico nell’elenco delle minacce del Pentagono. Sono sicuro che King approverebbe.
Il maggior approvvigionatore di violenza: il militarismo USA, da 50 anni
Una nazione che continua anno dopo anno a spendere più denaro in difesa militare che in programmi di edificazione sociale sta approssimando la morte spirituale.
Sapevo che non avrei potuto levare la voce contro la violenza degli oppressi nei ghetti senza aver prima parlato chiaramente al più grande procuratore di violenza al mondo oggi: il mio stesso governo. —MLK, 1967
Si potrebbe plausibilmente argomentare che gli Stati Uniti restano un eminente fornitore di morte, o almeno di caos, in molte parti del pianeta oggi. È questo—il terzo dei mali di King—di cui ho più esperienza. Ahimè, nel 2018 il militarismo americano è vivo e prospero, dalla teatralità marziale simbolica che pervade la National Football League fino a una guerra davvero globale, continua e in espansione. Grazie a una laboriosa ricerca alla Brown University, ora sappiamo che l’apparato militare USA sta conducendo operazioni di contro-terrorismo—tutte guerre non dichiarate—in 76 paesi. Il conto finora? Circa 7.000 soldati americani morti (otto fra i miei), 1.300.000 morti arabi/ musulmani collegati alla guerra, 10 milioni di profughi e 5.600.000 milioni di dollari. Per tutto ciò, abbiamo ottenuto 30 volte più attacchi terroristici a livello mondiale di quanti avvenuti nel 2001. Che ruberia!
Acquisire altre nozioni fattuali sullo stato del militarismo USA comporta un giro macabro delle operazioni dirette e sponsorizzate per il Medio Oriente inteso nel senso più ampio. In Yemen, gli USA sono complici dei bombardamenti terroristici sauditi—mediante l’approvvigionamento di munizioni e rifornimenti in volo—che causano estrema carestia e l’epidemia di colera peggioe al mondo nella nazione più povera del mondo arabo. In Siria e Iraq, la campagna (forse giustificabile) contro lo Stato Islamico è risultata in ben più vittime civili di quanto originariamente reso noto. L’incessante sostegno del governo israeliano d’estrema destra ha contribuito a facilitare un incessante stato d’assedio dei palestinesi nella Striscia di Gaza. Gli USA sostengono pure dittatori, re o uomini forti con ripugnanti stati di servizio sui diritti umani per tutta quanta la regione, dall’Egitto all’Arabia Saudita. Certo, sono dei truffatori, certo, abbattono i manifestanti, certo, decapitano le donne per “stregoneria”, ma sono almeno i nostri truffatori.
Il punto è semplice quanto allarmante: pur essendoci molti “procacciatori di violenza oggi nel mondo, gli  Stati Uniti sono lungi dall’esserne innocenti. Il militarismo è vivo e vegeto e in crescita nella nostra cultura sempre più marziale. Al tempo di King, le ragazzine vietnamite arse neggli attacchi al napalm manifestavano questa mentalità. Oggi, forse l’immagine più adeguata ne è il bambino yemenita che muore di fame.
Appropriazione dei defunti: commemorazione deliberatamente sballata di King
In America, negli anni 1950 e ‘60, una delle crisi importanti cui ci siamo trovati di fronte è stata la discriminazione razziale. L’uomo le cui parole e azioni in tale crisi agitarono la nostra nazione fin nel profondo dell’anima è stato il dr. Martin Luther King, Jr. —il presidente Ronald Reagan, 1983
Quando un attore di Hollywood [Reagan], carente perfino come tale, può diventare un candidato falco di guerra per la presidenza, solo le irrazionalità indotte da una psicosi bellica sanno spiegare una svolta così penosa negli avvenimenti. —MLK, 1968
Che voci neoliberiste e neoconservatrici — con tanto di personaggi di primo piano in ambo i partiti — ogni anno rendano il dovuto omaggio a King, senza una parola sul materialismo o il militarismo, è una disgrazia nazionale. Che l’ex-presidente Reagan, eroe della destra contemporanea, lo lodasse pubblicamente, rasenta l’assurdo. Tanto per non dimenticare, Reagan, dopo tutto, fece la prima tappa della sua campagna elettorale presidenziale nella contea di Neshoba, Mississipi —lodando i “diritti degli stati” nella città famosa perché vi furono assassinati tre attivisti dei diritti civili nel 1964. Nonché essersi inizialmente opposto al disegno di legge per la designazione della Giornata celebrativa per Martin Luther King Day. Ed essersi rifiutato di negare che King fose un “comunista”; Reagan diceva nulla più che “Lo sapremo solo fra 35 anni o giù di lì, no?”   E, a proposito, ci sono ancora quattro sentori (Repubblicani) in carica che votarono contro la Giornata M.L.King: Richard Shelby dell’Alabama (nessuna sorpresa lì), Chuck Grassley dell’Iowa, Orrin (non ci sono neri in Utah) Hatch and (preoccupante) John McCain dell’Arizona.
Ogni anno ci dobbiamo sorbire la stessa ipocrisia. Figure ortodosse di ambo i patiti—alcuni che votano per massicce esenzioni fiscali per i ricchi e quasi tutti a sostegno delle interminabili guerre USA—lodano pubblicamente e poi invocano lo spettro di King. Nessuno redige un piano per il 21° secolo che attui la visione ancora incompleta di MLK. Non ce l’hanno un piano del genere. Sono stati comprati e venduti da tempo da élite megaziendali e dal complesso militar-industriale. A destra, qualcuno indulge addirittura alla fantasticheria che King fosse in realtà un Repubblicano. Non lo era. A dirla tutta, King non avrebbe calzato nessuno dei due attuali partiti. La sua piattaforma e le sue tematiche preferite non ottengono quasi la pubblica ribalta salvo che presso la sinistra marginale. Cionondimeno, sia i Democratici sia i Repubblicani evocano lo spirito di King ad ogni gennaio per qualche piccolo guadagno elettorale: nefando!
Specialmente i Repubblicani, ma anche i liberal centristi, vogliono che crediamo che King fosse solamente una cosa: un ristretto attivista nonviolento dei diritti civili. Che abbia proferito un solo discorso: riguardo al sogno che le sue figlie, nere, frequentassero la scuola con le ragazzine bianche. Lo hanno sterilizzato, castrato il suo messaggio, omesso (con una impressionante neolingua orwelliana) le sue citazioni scomode. L’hanno fatto con intenzioni e un programma politico efferati: convincere le masse che la rivoluzione di King è finita, completata, terminale. Smettete di lamentarvi, statevene via dalle strade, non c’è motivo di protestare. Siate grati per quel che avete.
Non cascateci. Leggete, studiate, scovate il vero King, il King radicale, e raccogliete il testimone della sua lotta—un sogno differito—contro i tre mali ancora vivi e vegeti negli Stati Uniti: razzismo, materialismo e militarismo. I padroni di questo paese contano sulla vostra apatia. Dategli torto.

Titolo originale: Martin Luther King’s Revolutionary Dream DeferredTraduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

Il maggiore Danny Sjursen è un officiale dell’ U.S.Army ed ex-istruttore di storia a West Point. Ha svolto varie missioni di squadre di ricognizione in Iraq e Afghanistan.