Un ex soldato della Us Air Force, il 27enne Brandon Bryant, ha raccontato allo Spiegel gli “orrori” della guerra “virtuale” che, per più di cinque anni, ha condotto a distanza. A distanza, sì. Perché Brandon bombardava in Afghanistan e in Iraq ma era nel New Mexico, chiuso in un container senza finestre e con l’aria condizionata. Un computer, una tastiera e un joystick i suoi strumenti di morte: telecomandava droni. Nella guerra “virtuale, impersonale e asettica” di cui Brandon era partecipe, sono comparsi – per pochi, lunghi istanti – “uomini, donne e anche bambini”. Ormai insonne e depresso, Brandon viene messo a riposo per sei mesi: “sindrome post traumatica”. Come un soldato al fronte che ha combattuto una guerra “vera”. Per poi essere congedato.
“Quando Brandon premeva un bottone dal New Mexico qualcuno moriva dall’altra parte del mondo”, scrive lo Spiegel. Ad esempio quando un drone Predator da lui telecomandato volava sopra una baracca fatta di fango in un villaggio afgano; il pilota accanto a lui ha impugnato il joystick e ha lanciato un missile Hellfire. Restavano 16 secondi all’impatto.
“Questi momenti sono come in slow motion”, ha dichiarato Brandon. A
sette secondi dall’impatto non si vedeva ancora nessuno sul terreno. Il
missile poteva essere quindi deviato, a quel punto. A tre secondi
dall’impatto è spuntato un bambino. Una forte esplosione. Parti
dell’edificio sono crollate immediatamente. Il bambino è scomparso.
Brandon è stato preso da un’orrenda sensazione. “Abbiamo appena ucciso
un bambino?” ha chiesto al collega. “Sì, credo che che fosse un
bambino”, ha replicato questi. ”Era un bambino?” hanno quindi chiesto ai
superiori sulla finestra di chat. “No. Era un cane”, hanno risposto.
“Un cane su due piedi?”
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