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BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (PARTE 5)
Manlio Dinucci
AFGHANISTAN: LA PRIMA GUERRA DELLA NATO AL DI FUORI DELL’AREA EURO-ATLANTICA
Il reale motivo dell’intervento Usa/Nato in Afghanistan non è la sua liberazione dai taleban, che erano stati addestrati e armati in Pakistan in una operazione diretta dalla Cia per conquistare il potere a Kabul, ma l’occupazione di quest’area di primaria importanza strategica per gli Stati Uniti.
L’Afghanistan è al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale. In quest’area (nel Golfo e nel Caspio) si trovano le maggiori riserve petrolifere del mondo. Si trovano tre grandi potenze – Cina, Russia e India – la cui forza sta crescendo e influendo sugli assetti globali. Come aveva avvertito il Pentagono nel rapporto del 30 settembre 2001, «esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse».
La decisione di dislocare forze in Afghanistan, quale primo passo per estendere la presenza militare statunitense nell’Asia centrale, viene presa a Washington non dopo l’11 settembre 2001, ma prima. Lo rivelano attendibili fonti, secondo le quali «il presidente Bush, due giorni prima dell’11 settembre, era in procinto di firmare un piano dettagliato che prevedeva operazioni militari in Afghanistan» (NBC News, 16 maggio 2002): era già dunque sul tavolo del presidente, prima dell’attacco terroristico che ufficialmente motiva la guerra in Afghanistan, «il piano di guerra che la Casa Bianca, la Cia e il Pentagono hanno messo in atto dopo l’11 settembre».
Nel periodo precedente l’11 settembre 2001, vi sono in Asia forti segnali di un riavvicinamento tra Cina e Russia, che si concretizzano quando, il 17 luglio 2001, i presidenti Jang Zemin e Vladimir Putin firmano a Mosca il «Trattato di buon vicinato e amichevole cooperazione», definito una «pietra miliare» nelle relazioni tra i due paesi. Pur senza dichiararlo, Washington considera il riavvicinamento tra Cina e Russia una sfida agli interessi statunitensi in Asia, nel momento critico in cui gli Stati Uniti cercano di occupare, prima di altri, il vuoto che la digregazione dell’Urss ha lasciato in Asia centrale. Una posizione geostrategica chiave per il controllo di quest’area è quella dell’Afghanistan.
Con la motivazione ufficiale di dare la caccia a Osama bin Laden, indicato come mandante degli attacchi dell’11 settembre a New York e Washington, la guerra inizia il 7 ottobre 2001 con il bombardamento dell’Afghanistan effettuato dall’aviazione statunitense e britannica. Precedentemente vengono infiltrate in territorio afghano forze speciali con il compito di preparare l’attacco insieme all’Alleanza del nord e altre formazioni anti-talebane. Sotto i massicci bombardamenti e l’offensiva terrestre dell’Alleanza del nord, le forze talebane, cui si affiancano volontari provenienti dal Pakistan e altri paesi, sono costrette ad abbandonare Kabul il 13 novembre.
A questo punto il Consiglio di sicurezza dell’Onu autorizza, con la risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001, la costituzione dell’Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza). Suo compito è quello di assistere l’autorità ad interim afghana a Kabul e dintorni. Secondo l’art. VII della Carta delle Nazioni unite, l'impiego delle forze armate messe a disposizione da membri dell’Onu per tali missioni deve essere stabilito dal Consiglio di sicurezza coadiuvato dal Comitato di stato maggiore, composto dai capi di stato maggiore dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Anche se tale comitato non esiste, l’Isaf resta fino all’agosto 2003 una missione Onu, la cui direzione viene affidata in successione a Gran Bretagna, Turchia, Germania e Olanda.
Ma improvvisamente, l’11 agosto 2003, la Nato annuncia di aver «assunto il ruolo di leadership dell’Isaf, forza con mandato Onu». E’ un vero e proprio colpo di mano: nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere la leadership, ossia il comando, dell’Isaf. Solo a cose fatte, nella risoluzione 1659 del 15 febbraio 2006, il Consiglio di sicurezza «riconosce il continuo impegno della Nato nel dirigere l’Isaf».
A guidare la missione, dall’11 agosto 2003, non è più l’Onu ma la Nato: il quartier generale Isaf viene infatti inserito nella catena di comando della Nato, che sceglie di volta in volta i generali da mettere a capo dell’Isaf. Come sottolinea un comunicato ufficiale, «la Nato ha assunto il comando e il coordinamento dell’Isaf nell’agosto 2003: questa è la prima missione al di fuori dell’area euro-atlantica nella storia della Nato». La missione Isaf viene quindi inserita nella catena di comando del Pentagono. Nella stessa catena di comando sono inseriti i militari italiani assegnati all’Isaf, insieme a elicotteri e aerei, compresi i cacciabombardieri Tornado.
(5 – CONTINUA)
Manlio Dinucci
AFGHANISTAN: LA PRIMA GUERRA DELLA NATO AL DI FUORI DELL’AREA EURO-ATLANTICA
Il reale motivo dell’intervento Usa/Nato in Afghanistan non è la sua liberazione dai taleban, che erano stati addestrati e armati in Pakistan in una operazione diretta dalla Cia per conquistare il potere a Kabul, ma l’occupazione di quest’area di primaria importanza strategica per gli Stati Uniti.
L’Afghanistan è al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale. In quest’area (nel Golfo e nel Caspio) si trovano le maggiori riserve petrolifere del mondo. Si trovano tre grandi potenze – Cina, Russia e India – la cui forza sta crescendo e influendo sugli assetti globali. Come aveva avvertito il Pentagono nel rapporto del 30 settembre 2001, «esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse».
La decisione di dislocare forze in Afghanistan, quale primo passo per estendere la presenza militare statunitense nell’Asia centrale, viene presa a Washington non dopo l’11 settembre 2001, ma prima. Lo rivelano attendibili fonti, secondo le quali «il presidente Bush, due giorni prima dell’11 settembre, era in procinto di firmare un piano dettagliato che prevedeva operazioni militari in Afghanistan» (NBC News, 16 maggio 2002): era già dunque sul tavolo del presidente, prima dell’attacco terroristico che ufficialmente motiva la guerra in Afghanistan, «il piano di guerra che la Casa Bianca, la Cia e il Pentagono hanno messo in atto dopo l’11 settembre».
Nel periodo precedente l’11 settembre 2001, vi sono in Asia forti segnali di un riavvicinamento tra Cina e Russia, che si concretizzano quando, il 17 luglio 2001, i presidenti Jang Zemin e Vladimir Putin firmano a Mosca il «Trattato di buon vicinato e amichevole cooperazione», definito una «pietra miliare» nelle relazioni tra i due paesi. Pur senza dichiararlo, Washington considera il riavvicinamento tra Cina e Russia una sfida agli interessi statunitensi in Asia, nel momento critico in cui gli Stati Uniti cercano di occupare, prima di altri, il vuoto che la digregazione dell’Urss ha lasciato in Asia centrale. Una posizione geostrategica chiave per il controllo di quest’area è quella dell’Afghanistan.
Con la motivazione ufficiale di dare la caccia a Osama bin Laden, indicato come mandante degli attacchi dell’11 settembre a New York e Washington, la guerra inizia il 7 ottobre 2001 con il bombardamento dell’Afghanistan effettuato dall’aviazione statunitense e britannica. Precedentemente vengono infiltrate in territorio afghano forze speciali con il compito di preparare l’attacco insieme all’Alleanza del nord e altre formazioni anti-talebane. Sotto i massicci bombardamenti e l’offensiva terrestre dell’Alleanza del nord, le forze talebane, cui si affiancano volontari provenienti dal Pakistan e altri paesi, sono costrette ad abbandonare Kabul il 13 novembre.
A questo punto il Consiglio di sicurezza dell’Onu autorizza, con la risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001, la costituzione dell’Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza). Suo compito è quello di assistere l’autorità ad interim afghana a Kabul e dintorni. Secondo l’art. VII della Carta delle Nazioni unite, l'impiego delle forze armate messe a disposizione da membri dell’Onu per tali missioni deve essere stabilito dal Consiglio di sicurezza coadiuvato dal Comitato di stato maggiore, composto dai capi di stato maggiore dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Anche se tale comitato non esiste, l’Isaf resta fino all’agosto 2003 una missione Onu, la cui direzione viene affidata in successione a Gran Bretagna, Turchia, Germania e Olanda.
Ma improvvisamente, l’11 agosto 2003, la Nato annuncia di aver «assunto il ruolo di leadership dell’Isaf, forza con mandato Onu». E’ un vero e proprio colpo di mano: nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere la leadership, ossia il comando, dell’Isaf. Solo a cose fatte, nella risoluzione 1659 del 15 febbraio 2006, il Consiglio di sicurezza «riconosce il continuo impegno della Nato nel dirigere l’Isaf».
A guidare la missione, dall’11 agosto 2003, non è più l’Onu ma la Nato: il quartier generale Isaf viene infatti inserito nella catena di comando della Nato, che sceglie di volta in volta i generali da mettere a capo dell’Isaf. Come sottolinea un comunicato ufficiale, «la Nato ha assunto il comando e il coordinamento dell’Isaf nell’agosto 2003: questa è la prima missione al di fuori dell’area euro-atlantica nella storia della Nato». La missione Isaf viene quindi inserita nella catena di comando del Pentagono. Nella stessa catena di comando sono inseriti i militari italiani assegnati all’Isaf, insieme a elicotteri e aerei, compresi i cacciabombardieri Tornado.
(5 – CONTINUA)
BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (PARTE 6)
Manlio Dinucci
LA GUERRA USA/NATO IN IRAQ
Il piano statunitense di attaccare e occupare l’Iraq appare evidente quando, dopo l’occupazione dell’Afghanistan nel novembre 2001, il presidente Bush mette l'Iraq, nel 2002, al primo posto tra i paesi facenti parte dell’«asse del male».
Dopo la prima guerra del Golfo nel 1991, l’Iraq è stato sottoposto ad un ferreo embargo che ha provocato in dieci anni circa un milione di morti, di cui circa mezzo milione tra i bambini. Una strage provocata, oltre che dalla denutrizione cronica e la mancanza di medicinali, dalla carenza di acqua potabile e dalle conseguenti malattie infettive e parassitarie. Gli Stati Uniti – dimostrano documenti venuti alla luce successivamente – hanno attuato un preciso piano: prima bombardare gli impianti di depurazione e gli acquedotti per provocare una crisi idrica, quindi impedire con l’embargo che l’Iraq possa importare i sistemi di depurazione. Le conseguenze sanitarie erano chiaramente previste sin dall’inizio e programmate in modo da accelerare il collasso dell’Iraq. Altre vittime vengono provocate, negli anni successivi alla prima guerra, dai proiettili a uranio impoverito, massicciamente usati dalle forze statunitensi e alleate sia nei bombardamenti aerei che in quelli terrestri.
La seconda guerra contro l’Iraq si rivela però più difficile a motivare di quella effettuata nel 1990-91. A differenza di allora, l’Iraq di Saddam Hussein non compie alcuna aggressione e si attiene alla Risoluzione 1441 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, permettendo agli ispettori Onu di entrare in tutti i siti per verificare l’eventuale esistenza di armi di distruzione di massa (che non vengono trovate). Diviene di conseguenza più difficile per gli Stati Uniti creare la motivazione «legale» per la guerra e, su questa base, ottenere un imprimatur internazionale analogo a quello del 1991.
L’amministrazione Bush è però decisa ad andare fino in fondo. Fabbrica una serie di «prove», che successivamente risulteranno false, sulla presunta esistenza di un grosso arsenale di armi chimiche e batteriologiche, che sarebbe in possesso dell’Iraq, e su una sua presunta capacità di costruire in breve tempo armi nucleari. E, poiché il Consiglio di sicurezza dell’Onu si rifiuta di autorizzare la guerra, l’amministrazione Bush semplicemente lo scavalca.
La guerra inizia il 20 marzo 2003 con il bombardamento aereo di Baghdad e altri centri da parte dell’aviazione statunitense e britannica e con l’attacco terrestre effettuato dai marines entrati in Iraq dal Kuwait. Il 9 aprile truppe Usa occupano Baghdad. L’operazione, denominata «Iraqi Freedom», viene presentata come «guerra preventiva» ed «esportazione della democrazia». Viene in tal modo attuato il principio enunciato dal Pentagono (Quadrennial Defense Review Report, 30 settembre 2001): «Le forze armate statunitensi devono mantenere la capacità, sotto la direzione del Presidente, di imporre la volontà degli Stati Uniti a qualsiasi avversario, inclusi stati ed entità non-statali, cambiare il regime di uno stato avversario od occupare un territorio straniero finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati».
Ma, oltre alla «volontà degli Stati Uniti», c’è la volontà dei popoli di resistere. E’ ciò che avviene in Iraq, dove le forze di occupazione statunitensi e alleate – comprese quelle italiane impegnate nell’operazione «Antica Babilonia» – cui si uniscono i mercenari di compagnie private, incontrano una resistenza che non si aspettavano di trovare, nonostante la durissima repressione che provoca nella fase iniziale della guerra (solo per effetto delle azioni militari) decine di migliaia di morti tra la popolazione.
Poiché la resistenza irachena inceppa la macchina bellica statunitense e alleata, Washington ricorre all’antica ma sempre efficace politica del «divide et impera», facendo delle concessioni ad alcuni raggruppamenti sciiti e curdi così da isolare i sunniti. Nel caso che l’operazione non riesca, Washington ha pronto il piano di riserva: disgregare l’Iraq (come già fatto con la Federazione Jugoslava) in modo da poter controllare le zone petrolifere e altre aree di interesse strategico, attraverso accordi con gruppi di potere locali.
È a questo scopo che interviene ufficialmente la Nato, la quale ha fino a quel momento partecipato alla guerra di fatto con proprie strutture e forze. Nel 2004 viene istituita la «Missione Nato di addestramento», al fine dichiarato di «aiutare l’Iraq a creare efficienti forze armate». Dal 2004 al 2011 vengono addestrati, in 2000 corsi speciali tenuti in paesi dell’Alleanza, migliaia di militari e poliziotti iracheni che vengono anche dotati di armi donate dagli stessi paesi.
Contemporaneamente la Nato invia in Iraq istruttori e consiglieri, compresi quelli italiani, per «aiutare il paese a creare un proprio settore della sicurezza a guida democratica e durevole» e per «stabilire una partnership a lungo termine della Nato con l’Iraq».
(6 – CONTINUA)
Manlio Dinucci
LA GUERRA USA/NATO IN IRAQ
Il piano statunitense di attaccare e occupare l’Iraq appare evidente quando, dopo l’occupazione dell’Afghanistan nel novembre 2001, il presidente Bush mette l'Iraq, nel 2002, al primo posto tra i paesi facenti parte dell’«asse del male».
Dopo la prima guerra del Golfo nel 1991, l’Iraq è stato sottoposto ad un ferreo embargo che ha provocato in dieci anni circa un milione di morti, di cui circa mezzo milione tra i bambini. Una strage provocata, oltre che dalla denutrizione cronica e la mancanza di medicinali, dalla carenza di acqua potabile e dalle conseguenti malattie infettive e parassitarie. Gli Stati Uniti – dimostrano documenti venuti alla luce successivamente – hanno attuato un preciso piano: prima bombardare gli impianti di depurazione e gli acquedotti per provocare una crisi idrica, quindi impedire con l’embargo che l’Iraq possa importare i sistemi di depurazione. Le conseguenze sanitarie erano chiaramente previste sin dall’inizio e programmate in modo da accelerare il collasso dell’Iraq. Altre vittime vengono provocate, negli anni successivi alla prima guerra, dai proiettili a uranio impoverito, massicciamente usati dalle forze statunitensi e alleate sia nei bombardamenti aerei che in quelli terrestri.
La seconda guerra contro l’Iraq si rivela però più difficile a motivare di quella effettuata nel 1990-91. A differenza di allora, l’Iraq di Saddam Hussein non compie alcuna aggressione e si attiene alla Risoluzione 1441 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, permettendo agli ispettori Onu di entrare in tutti i siti per verificare l’eventuale esistenza di armi di distruzione di massa (che non vengono trovate). Diviene di conseguenza più difficile per gli Stati Uniti creare la motivazione «legale» per la guerra e, su questa base, ottenere un imprimatur internazionale analogo a quello del 1991.
L’amministrazione Bush è però decisa ad andare fino in fondo. Fabbrica una serie di «prove», che successivamente risulteranno false, sulla presunta esistenza di un grosso arsenale di armi chimiche e batteriologiche, che sarebbe in possesso dell’Iraq, e su una sua presunta capacità di costruire in breve tempo armi nucleari. E, poiché il Consiglio di sicurezza dell’Onu si rifiuta di autorizzare la guerra, l’amministrazione Bush semplicemente lo scavalca.
La guerra inizia il 20 marzo 2003 con il bombardamento aereo di Baghdad e altri centri da parte dell’aviazione statunitense e britannica e con l’attacco terrestre effettuato dai marines entrati in Iraq dal Kuwait. Il 9 aprile truppe Usa occupano Baghdad. L’operazione, denominata «Iraqi Freedom», viene presentata come «guerra preventiva» ed «esportazione della democrazia». Viene in tal modo attuato il principio enunciato dal Pentagono (Quadrennial Defense Review Report, 30 settembre 2001): «Le forze armate statunitensi devono mantenere la capacità, sotto la direzione del Presidente, di imporre la volontà degli Stati Uniti a qualsiasi avversario, inclusi stati ed entità non-statali, cambiare il regime di uno stato avversario od occupare un territorio straniero finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati».
Ma, oltre alla «volontà degli Stati Uniti», c’è la volontà dei popoli di resistere. E’ ciò che avviene in Iraq, dove le forze di occupazione statunitensi e alleate – comprese quelle italiane impegnate nell’operazione «Antica Babilonia» – cui si uniscono i mercenari di compagnie private, incontrano una resistenza che non si aspettavano di trovare, nonostante la durissima repressione che provoca nella fase iniziale della guerra (solo per effetto delle azioni militari) decine di migliaia di morti tra la popolazione.
Poiché la resistenza irachena inceppa la macchina bellica statunitense e alleata, Washington ricorre all’antica ma sempre efficace politica del «divide et impera», facendo delle concessioni ad alcuni raggruppamenti sciiti e curdi così da isolare i sunniti. Nel caso che l’operazione non riesca, Washington ha pronto il piano di riserva: disgregare l’Iraq (come già fatto con la Federazione Jugoslava) in modo da poter controllare le zone petrolifere e altre aree di interesse strategico, attraverso accordi con gruppi di potere locali.
È a questo scopo che interviene ufficialmente la Nato, la quale ha fino a quel momento partecipato alla guerra di fatto con proprie strutture e forze. Nel 2004 viene istituita la «Missione Nato di addestramento», al fine dichiarato di «aiutare l’Iraq a creare efficienti forze armate». Dal 2004 al 2011 vengono addestrati, in 2000 corsi speciali tenuti in paesi dell’Alleanza, migliaia di militari e poliziotti iracheni che vengono anche dotati di armi donate dagli stessi paesi.
Contemporaneamente la Nato invia in Iraq istruttori e consiglieri, compresi quelli italiani, per «aiutare il paese a creare un proprio settore della sicurezza a guida democratica e durevole» e per «stabilire una partnership a lungo termine della Nato con l’Iraq».
(6 – CONTINUA)
BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (PARTE 7)
Manlio Dinucci
LA SEMPRE PIU’ STRETTA COOPERAZIONE MILITARE NATO-ISRAELE
Nell’aprile 2001 Israele firma al quartier generale della Nato a Bruxelles l’«accordo di sicurezza», impegnandosi a proteggere le «informazioni classificate» che riceverà nel quadro della cooperazione militare.
Nel giugno 2003 il governo italiano stipula con quello israeliano un memorandum d’intesa per la cooperazione nel settore militare e della difesa, che prevede tra l’altro lo sviluppo congiunto di un nuovo sistema di guerra elettronica.
Nel gennaio 2004 un aereo radar Awacs della Nato atterra per la prima volta a Tel Aviv e il personale israeliano viene addestrato all’uso delle sue tecnologie.
Nel dicembre 2004 viene data notizia che la Germania fornirà a Israele altri due sottomarini Dolphin, che si aggiungeranno ai tre (di cui due regalati) consegnati negli anni Novanta. Israele può così potenziare la sua flotta di sottomarini da attacco nucleare, tenuti costantemente in navigazione nel Mediterraneo, Mar Rosso e Golfo Persico.
Nel febbraio 2005 il segretario generale della Nato compie la prima visita ufficiale a Tel Aviv, dove incontra le massime autorità militari israeliane per «espandere la cooperazione militare».
Nel marzo 2005 si svolge nel Mar Rosso la prima esercitazione navale congiunta Israele-Nato: il comando del gruppo navale della «Forza di risposta Nato» è affidato alla marina italiana che vi partecipa con la fregata Bersagliere.
Nel maggio 2005, dopo essere stato ratificato al senato e alla camera, il memorandum d’intesa italo-israeliano diviene legge: viene così istituzionalizzata la cooperazione tra i ministeri della difesa e le forze armate dei due paesi riguardo l’«importazione, esportazione e transito di materiali militari», l’«organizzazione delle forze armate», la «formazione/addestramento».
Nel maggio 2005 Israele viene ammesso quale membro dell’Assemblea parlamentare della Nato.
Nel giugno 2005 la marina israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Golfo di Taranto.
Nel luglio 2005 truppe israeliane partecipano per la prima volta a una esercitazione Nato, che si svolge in Ucraina.
Nel giugno 2006 una nave da guerra israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Mar Nero allo scopo di «creare una migliore interoperabilità tra la marina israeliana e le forze navali Nato».
Nell’ottobre 2006, Nato e Israele concludono un accordo che stabilisce una più stretta cooperazione israeliana al programma Nato «Dialogo mediterraneo», il cui scopo è «contribuire alla sicurezza e stabilità della regione». In tale quadro, «Nato e Israele si accordano sulle modalità del contributo israeliano all’operazione marittima della Nato Active Endeavour» (Nato/Israel Cooperation, 16 ottobre 2006).
Israele viene così premiato dalla Nato per l’attacco e l’invasione del Libano. Le forze navali israeliane, che insieme a quelle aeree e terrestri hanno appena martellato il Libano con migliaia di tonnellate di bombe facendo strage di civili, vengono integrate nella operazione Nato che dovrebbe «combattere il terrorismo nel Mediterraneo». Le stesse forze navali che, bombardando la centrale elettrica di Jiyyeh sulle coste libanesi, hanno provocato una enorme marea nera diffusasi nel Mediterraneo (la cui bonifica verrà a costare centinaia di milioni di dollari), collaborano ora con la Nato per «contribuire alla sicurezza della regione».
Il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell’attacco israeliano a Gaza, la Nato ratifica il «Programma di cooperazione individuale» con Israele. Esso comprende una vasta gamma di campi in cui «Nato e Israele coopereranno pienamente»: controterrorismo, tra cui scambio di informazioni tra i servizi di intelligence; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; aumento delle esercitazioni militari congiunte Nato-Israele; allargamento della cooperazione nella lotta contro la proliferazione nucleare (ignorando che Israele, unica potenza nucleare della regione, ha rifiutato di firmare il Trattato di non-proliferazione).
LA NATO «A CACCIA DI PIRATI» NELL’OCEANO INDIANO
Nell’ottobre 2008, un gruppo navale della Nato, lo Standing Nato Maritime Group 2 (Snmg2), attraversa il Canale di Suez, entrando nell’Oceano Indiano. Ne fanno parte navi da guerra di Italia, Stati uniti, Germania, Gran Bretagna, Grecia e Turchia. Questo gruppo navale (il cui comando è assunto a rotazione dai paesi membri) fa parte di una delle tre componenti dello Allied Joint Force Command Naples, il cui comando è permanentemente attribuito a un ammiraglio statunitense, lo stesso che comanda le Forze navali Usa in Europa. L’area in cui opera lo Snmg2 non ha ormai più confini, in quanto esso costituisce una delle unità della «Forza di risposta della Nato», pronta a essere proiettata «per qualsiasi missione in qualsiasi parte del mondo».
Scopo ufficiale della missione dello Snmg2 nell’Oceano Indiano è condurre «operazioni anti-pirateria» lungo le coste della Somalia, scortando i mercantili che trasportano gli aiuti alimentari del World Food Program delle Nazioni Unite. In questo «sforzo umanitario», la Nato «continua a coordinare la sua assistenza con l’operazione Enduring Freedom a guida Usa». Dietro questa missione Nato, vi è quindi ben altro. In quel momento, in Somalia, la politica statunitense sta subendo un nuovo scacco: le truppe etiopiche, qui inviate nel 2006 dopo il fallimento del tentativo della Cia di rovesciare le Corti islamiche sostenendo una coalizione «anti-terrorismo» dei signori della guerra, sono state costrette a ritirarsi dalla resistenza somala.
Washington prepara quindi altre operazioni militari per estendere il proprio controllo alla Somalia, provocando altre disastrose conseguenze sociali. Esse sono alla base dello stesso fenomeno della pirateria, nato in seguito alla pesca illegale da parte di flotte straniere e allo scarico di sostanze tossiche nelle acque somale, che hanno rovinato i piccoli pescatori, diversi dei quali sono ricorsi alla pirateria.
Nella strategia Usa/Nato, la Somalia è importante per la sua stessa posizione geografica sulle coste dell’Oceano Indiano. Per controllare quest’area è stata stazionata a Gibuti, all’imboccatura del Mar Rosso, una task force statunitense. L’intervento militare, diretto e indiretto, in questa e altre aree si intensifica ora con la nascita del Comando Africa degli Stati uniti. E’ nella sua «area di responsabilità» che viene inviato il gruppo navale Nato.
Esso ha anche un’altra missione ufficiale: visitare alcuni paesi del Golfo persico (Kuwait, Bahrain, Qatar ed Emirati Arabi Uniti), partner Nato nel quadro dell’Iniziativa di cooperazione di Istanbul. Le navi da guerra della Nato vanno così ad aggiungersi alle portaerei e molte altre unità che gli Usa hanno dislocato nel Golfo e nell’Oceano Indiano, in funzione anti-Iran e per condurre, anche con l’aviazione navale, la guerra aerea in Afghanistan.
(7 – continua)
Manlio Dinucci
LA SEMPRE PIU’ STRETTA COOPERAZIONE MILITARE NATO-ISRAELE
Nell’aprile 2001 Israele firma al quartier generale della Nato a Bruxelles l’«accordo di sicurezza», impegnandosi a proteggere le «informazioni classificate» che riceverà nel quadro della cooperazione militare.
Nel giugno 2003 il governo italiano stipula con quello israeliano un memorandum d’intesa per la cooperazione nel settore militare e della difesa, che prevede tra l’altro lo sviluppo congiunto di un nuovo sistema di guerra elettronica.
Nel gennaio 2004 un aereo radar Awacs della Nato atterra per la prima volta a Tel Aviv e il personale israeliano viene addestrato all’uso delle sue tecnologie.
Nel dicembre 2004 viene data notizia che la Germania fornirà a Israele altri due sottomarini Dolphin, che si aggiungeranno ai tre (di cui due regalati) consegnati negli anni Novanta. Israele può così potenziare la sua flotta di sottomarini da attacco nucleare, tenuti costantemente in navigazione nel Mediterraneo, Mar Rosso e Golfo Persico.
Nel febbraio 2005 il segretario generale della Nato compie la prima visita ufficiale a Tel Aviv, dove incontra le massime autorità militari israeliane per «espandere la cooperazione militare».
Nel marzo 2005 si svolge nel Mar Rosso la prima esercitazione navale congiunta Israele-Nato: il comando del gruppo navale della «Forza di risposta Nato» è affidato alla marina italiana che vi partecipa con la fregata Bersagliere.
Nel maggio 2005, dopo essere stato ratificato al senato e alla camera, il memorandum d’intesa italo-israeliano diviene legge: viene così istituzionalizzata la cooperazione tra i ministeri della difesa e le forze armate dei due paesi riguardo l’«importazione, esportazione e transito di materiali militari», l’«organizzazione delle forze armate», la «formazione/addestramento».
Nel maggio 2005 Israele viene ammesso quale membro dell’Assemblea parlamentare della Nato.
Nel giugno 2005 la marina israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Golfo di Taranto.
Nel luglio 2005 truppe israeliane partecipano per la prima volta a una esercitazione Nato, che si svolge in Ucraina.
Nel giugno 2006 una nave da guerra israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Mar Nero allo scopo di «creare una migliore interoperabilità tra la marina israeliana e le forze navali Nato».
Nell’ottobre 2006, Nato e Israele concludono un accordo che stabilisce una più stretta cooperazione israeliana al programma Nato «Dialogo mediterraneo», il cui scopo è «contribuire alla sicurezza e stabilità della regione». In tale quadro, «Nato e Israele si accordano sulle modalità del contributo israeliano all’operazione marittima della Nato Active Endeavour» (Nato/Israel Cooperation, 16 ottobre 2006).
Israele viene così premiato dalla Nato per l’attacco e l’invasione del Libano. Le forze navali israeliane, che insieme a quelle aeree e terrestri hanno appena martellato il Libano con migliaia di tonnellate di bombe facendo strage di civili, vengono integrate nella operazione Nato che dovrebbe «combattere il terrorismo nel Mediterraneo». Le stesse forze navali che, bombardando la centrale elettrica di Jiyyeh sulle coste libanesi, hanno provocato una enorme marea nera diffusasi nel Mediterraneo (la cui bonifica verrà a costare centinaia di milioni di dollari), collaborano ora con la Nato per «contribuire alla sicurezza della regione».
Il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell’attacco israeliano a Gaza, la Nato ratifica il «Programma di cooperazione individuale» con Israele. Esso comprende una vasta gamma di campi in cui «Nato e Israele coopereranno pienamente»: controterrorismo, tra cui scambio di informazioni tra i servizi di intelligence; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; aumento delle esercitazioni militari congiunte Nato-Israele; allargamento della cooperazione nella lotta contro la proliferazione nucleare (ignorando che Israele, unica potenza nucleare della regione, ha rifiutato di firmare il Trattato di non-proliferazione).
LA NATO «A CACCIA DI PIRATI» NELL’OCEANO INDIANO
Nell’ottobre 2008, un gruppo navale della Nato, lo Standing Nato Maritime Group 2 (Snmg2), attraversa il Canale di Suez, entrando nell’Oceano Indiano. Ne fanno parte navi da guerra di Italia, Stati uniti, Germania, Gran Bretagna, Grecia e Turchia. Questo gruppo navale (il cui comando è assunto a rotazione dai paesi membri) fa parte di una delle tre componenti dello Allied Joint Force Command Naples, il cui comando è permanentemente attribuito a un ammiraglio statunitense, lo stesso che comanda le Forze navali Usa in Europa. L’area in cui opera lo Snmg2 non ha ormai più confini, in quanto esso costituisce una delle unità della «Forza di risposta della Nato», pronta a essere proiettata «per qualsiasi missione in qualsiasi parte del mondo».
Scopo ufficiale della missione dello Snmg2 nell’Oceano Indiano è condurre «operazioni anti-pirateria» lungo le coste della Somalia, scortando i mercantili che trasportano gli aiuti alimentari del World Food Program delle Nazioni Unite. In questo «sforzo umanitario», la Nato «continua a coordinare la sua assistenza con l’operazione Enduring Freedom a guida Usa». Dietro questa missione Nato, vi è quindi ben altro. In quel momento, in Somalia, la politica statunitense sta subendo un nuovo scacco: le truppe etiopiche, qui inviate nel 2006 dopo il fallimento del tentativo della Cia di rovesciare le Corti islamiche sostenendo una coalizione «anti-terrorismo» dei signori della guerra, sono state costrette a ritirarsi dalla resistenza somala.
Washington prepara quindi altre operazioni militari per estendere il proprio controllo alla Somalia, provocando altre disastrose conseguenze sociali. Esse sono alla base dello stesso fenomeno della pirateria, nato in seguito alla pesca illegale da parte di flotte straniere e allo scarico di sostanze tossiche nelle acque somale, che hanno rovinato i piccoli pescatori, diversi dei quali sono ricorsi alla pirateria.
Nella strategia Usa/Nato, la Somalia è importante per la sua stessa posizione geografica sulle coste dell’Oceano Indiano. Per controllare quest’area è stata stazionata a Gibuti, all’imboccatura del Mar Rosso, una task force statunitense. L’intervento militare, diretto e indiretto, in questa e altre aree si intensifica ora con la nascita del Comando Africa degli Stati uniti. E’ nella sua «area di responsabilità» che viene inviato il gruppo navale Nato.
Esso ha anche un’altra missione ufficiale: visitare alcuni paesi del Golfo persico (Kuwait, Bahrain, Qatar ed Emirati Arabi Uniti), partner Nato nel quadro dell’Iniziativa di cooperazione di Istanbul. Le navi da guerra della Nato vanno così ad aggiungersi alle portaerei e molte altre unità che gli Usa hanno dislocato nel Golfo e nell’Oceano Indiano, in funzione anti-Iran e per condurre, anche con l’aviazione navale, la guerra aerea in Afghanistan.
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BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (PARTE 1 e 2)