Alfonso Navarra: Gli ordigni nucleari come armi climatiche
Gli ordigni nucleari come armi di distruzione climatica
di Alfonso Navarra – direttore de “IL SOLE DI PARIGI” – 08.01.2018
L’inverno nucleare è lo scenario, di
cui, tra gli altri, fu pioniere il famoso astrofisico Carl Sagan, che,
leggiamo su Wikipedia, “conseguirebbe ad una ipotetica guerra
termonucleare di estensione mondiale tra potenze, come la Russia, gli
Stati Uniti, la Cina, la Francia, la Gran Bretagna e altri paesi in
possesso di un arsenale di armamenti atomici dal potenziale distruttivo
su scala globale”.
Gruppi di scienziati hanno elaborato
nel corso degli anni diverse teorie riguardanti questo fenomeno: si
sono basati innanzitutto sugli effetti riscontrati durante le esplosioni
atomiche avvenute a Hiroshima e Nagasaki (in Giappone) sul finire della
Seconda Guerra Mondiale, poi sui vari esperimenti nucleari portati a
termine da molti stati nel periodo post-bellico e della Guerra fredda;
infine sugli effetti collaterali del disastro di Černobyl.
Grazie ai venti, le particelle di
materia carbonizzata, le polveri radioattive e qualsiasi altra sostanza
in grado di alzarsi nell’aria si andrebbe a formare una barriera
impermeabile ai raggi solari che farebbe crollare le temperature
nell’atmosfera. La combinazione tra le basse temperature, la continua
oscurità e le radiazioni dovute alle esplosioni atomiche produrrebbero
sconvolgimenti climatici tali da compromettere la vita delle specie
animali e vegetali e provocare effetti devastanti anche sullo strato di
ozono.
L’inverno nucleare sarebbe legato
alla produzione di polveri fini a seguito dell’esplosione di testate
nucleari su obiettivi civili (e quindi non sui mari o nei deserti come
durante i test atomici).
Lo scenario di impiego massiccio
delle armi tiene conto del fatto che al momento delle esplosioni un moto
convettivo (il fungo atomico) trasporta rapidamente tutte le polveri
verso strati più alti. Questo dovrebbe creare una uniforme nube di
polvere e cenere radioattiva sospesa nell’aria fra i 1000 e i 2000 metri
da terra. La nube accumulerebbe l’energia solare e farebbe salire le
temperature degli strati della tropopausa e alta troposfera fino a 80 °C
mentre la superficie della Terra rimarrebbe protetta dai raggi solari e
si raffredderebbe in media, scusate se è poco!, di 40 °C.
Vi sono anche scenari di impiego più
contenuto di armi “atomiche” che vanno sotto il titolo di “guerra
nucleare locale”: vedi articolo allegato de Le Scienze (marzo 2010),
autori Alan Robock e Owen Brian Toon, dal sottoscritto citato ne: “La follia del nucleare: come uscirne” (coautori Luigi Mosca e Mario Agostinelli – Mimesis Edizioni, 2016).
Questo il sottotitolo del pezzo: “Ci
si preoccupa dei rapporti tra Stati Uniti e Russia, ma una guerra
nucleare regionale tra India e Pakistan potrebbe offuscare il Sole e
affamare buona parte dell’umanità”.
Qui la previsione diciamo
ottimistica è di solo un miliardo di morti dopo una ventina di anni, a
scalare dall’epicentro del conflitto.
Nel 2014 un altro studio su un
possibile conflitto nucleare tra India e Pakistan è salito agli onori
della cronaca: questo invece è stato pubblicato sulla rivista Earth’s
Future dell’American Geological Society (AGU).
Siamo sempre a 50 missili a testa di
15 kilotoni l’uno ma i morti previsti raddoppiano con l’uso di nuovi
modelli: 2 miliardi al posto di uno.
La stessa cifra viene fuori da uno studio dell’ International Physicians for the Prevention of Nuclear War (si vada su: http://www.ippnw.org/nuclear-famine.html)
. Secondo quel lavoro, un conflitto nucleare su piccola scala potrebbe
portare ad una diminuzione nella produzione di grano di almeno il 10%
per dieci anni, con picchi che raggiungerebbero il 20% nei momenti
peggiori.
Gli ordigni nucleari, se la teoria
dell’inverno nucleare fosse vera, potrebbero secondo ogni logica essere
inseriti a pieno titolo nella categoria delle armi di distruzione
climatica: le catastrofi climatiche che possono provocare sono un
effetto essenziale del loro impiego.
Arma direttamente climatica non è
quindi, ad esempio, solo la tecnologia elettromagnetica usata
militarmente per sconvolgere l’ambiente: è proprio l’arma nucleare, che
produce onde d’urto, tempeste di fuoco, inquinamento radioattivo ed
impatto elettromagnetico; ma, con un impiego relativamente allargato,
anche il cosiddetto “inverno nucleare”.
Un attacco nucleare contro la Corea
di poche decine di bombe H non farebbe solo milioni di morti subito su
un territorio circoscritto: il cambiamento climatico e la
destabilizzazione agricola ed ecologica investirebbero un’area molto più
ampia (la Cina è vicina!) e nel periodo di un paio di decenni
potrebbero causare, come si è visto, centinaia di milioni di morti.
Nel 1976, un’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una Convenzione internazionale (Risoluzione 31/72 del 10 dicembre 1976) che ha vietato l’uso militare di tecniche di modifica dell’ambiente che hanno effetti diffusi, duraturi e gravi nel tempo.
Essa è nota come Convenzione ENMOD (Convention on the Prohibition of Military or Any Other Hostile Use of Environmental Modification Techniques), è stata aperta alla firma il 18 maggio 1977 a Ginevra ed è entrata in vigore il 5 ottobre 1978.
L’Italia ha firmato la Convenzione a Ginevra il 18 maggio 1977 e l’ha ratificata con la legge n. 962 del 29 novembre 1980. (Per il suo testo andare alla URL: http://disarmament.un.org/treaties/t/enmod)
La Convenzione proibisce l’uso
militare e ogni altro utilizzo ostile delle tecniche di modifiche
ambientali aventi effetti estesi, duraturi o severi.
Il termine “tecniche di modifiche ambientali” si riferisce ad ogni tecnica finalizzata a cambiare – attraverso la manipolazione deliberata dei processi naturali
– la dinamica, la composizione e la struttura della Terra, incluse la
sua biosfera, litosfera, idrosfera e atmosfera, così come lo spazio
esterno.
I criteri per la definizione di tali
tecniche non sono definiti nel corpo della Convenzione ma nell’Intesa
sull’Articolo I che, riportando quanto emerso in fase negoziale,
esplicita i termini:
“esteso” come riferibile ad un’area di diverse centinaia di chilometri quadrati;
“duraturo” come riconducibile ad un periodo di mesi o di almeno una stagione;
“severo” come correlato ad un’azione
che provoca danni seri o significativi alla vita umana, naturale alle
risorse economiche o altre attività.
I primi due criteri sono valutati
con parametri quantitativi e l’ultimo criterio con elementi qualitativi
in parte riconducibili al concetto di sviluppo sostenibile.
Il divieto di guerra climatica,
ovvero di utilizzo delle tecniche di modifica del clima o di
geoingegneria con lo scopo di provocare danni o distruzioni, viene
ripreso anche nella Convenzione sulla diversità biologica del 2010.
Vogliamo a questo punto cercare il pelo nell’uovo?
La Convenzione ENMOD non tutelerebbe l’ambiente da qualunque danno provocato dalle azioni belliche o ostili ma vieterebbe solo quelle tecniche offensive che trasformano l’ambiente stesso in un’arma, ascrivibili alle tecniche di manipolazione ambientale.
In questo senso non vieterebbe l’uso
di armi atomiche per distruggere – che so – Pyong Yang ed altre città
coreane. Ma si dovrebbe anche considerare l’eventualità che l’attacco
alle città di un Paese piccolo possa essere solo uno schermo che
nasconde l’intenzione di provocare modifiche ambientali capaci di
disorganizzare e portare alla fame un Paese più grande confinante.
Gli ordigni nucleari capaci di tali
effetti potrebbero allora essere considerati proibiti ai sensi della
citata Convenzione ENMOD e una conferenza di revisione convocata ad hoc dall’ONU potrebbe avallare un tale sviluppo innovativo del diritto internazionale.
Un’altra strada potrebbe essere
quella di considerare, all’interno del percorso dell’accordo per
contrastare il riscaldamento globale di Parigi del 12 dicembre 2015, la
minaccia nucleare direttamente come una minaccia climatica, non solo un
problema collegato alla seconda dalla potenzialità analoga di estinzione
della specie umana.
La minaccia nucleare potrebbe
essere vista come possibile minaccia climatica diretta, allo stesso modo
dell’accumulo di gas serra.
Questo ragionamento costituirebbe un
salto di paradigma anche per noi Disarmisti esigenti, che pure abbiamo
lavorato sull’intreccio tra le due minacce sia a Parigi, sia a New York
che a Bonn, cioé sia nel percorso disarmista che in quello climatico.
Preparare la guerra nucleare
significa comunque preparare il più sconvolgente e repentino cataclisma
climatico. Potrebbe avvenire non solo come effetto collaterale ma come
risultato di una azione intenzionale.
Sembrerebbe quindi opportuno, anzi
doveroso, che il percorso ONU delle COP climatiche (ora dalla COP 23 di
Bonn si va alla COP 24 a Katowice in Polonia) ne prendesse
consapevolezza e si cautelasse dall’inverno nucleare o da quanto altro
potesse essere prodotto dalle armi nucleari come alterazione climatica
deliberata.
La crisi coreana rende questi
discorsi molto concreti per chiunque, nel momento in cui due leader
statali – e disgraziatamente non si tratta di una barzelletta – fanno la
gara a chi detiene il bottone nucleare più grosso!
Quanto sopra esposto dovrebbe comunque fare riflettere reti come la COALIZIONE PER IL CLIMA,
che si sono costituite con l’obiettivo di costruire iniziative e
mobilitazioni comuni, nazionali e territoriali, per raggiungere la
massima sensibilizzazione possibile sulla lotta ai cambiamenti
climatici, allo scopo di salvare il nostro Pianeta.
Se si ha a cuore il futuro
dell’ecosistema globale bisogna adoperarsi per eliminare alla radice la
minaccia nucleare, che oltretutto, come si è detto, potrebbe essere
direttamente minaccia climatica.
Ne consegue la necessità di farsi
partner attivo della Campagna ICAN (Abolizione delle armi nucleari),
allo stesso modo in cui la Rete ICAN non farebbe male ad occuparsi
dell’intreccio tra minaccia nucleare e minaccia climatica.
Non sarebbe affatto fuori tema la
richiesta che, al di là delle singole organizzazioni aderenti, la
COALIZIONE in quanto tale si facesse addirittura componente di ICAN in
Italia, accogliendo l’appello di “SIAMO TUTTI PREMI NOBEL”, lanciato con
la conferenza stampa al Senato dell’11 dicembre 2017.