Afghanistan. Il rapporto di Human Rights Watch accusa di crimini di guerra i gruppi armati, formati e controllati dall'intellingence statunitense. Negli ultimi due anni hanno commesso esecuzioni sommarie e sparizioni forzate di civili: «Vanno disarmate»
Giuliano Battiston, Emanuele Giordana
Quattordici casi documentati e 53 pagine di rapporto fanno luce sulle tenebre delle notti afghane in cui paramilitari locali, che rispondono alla Cia, si sono macchiati di gravi abusi e crimini di guerra. Piomba sull’incerto paesaggio politico e militare dell’Afghanistan un rapporto di Human Rights Watch, accurato e impietoso, che disegna quanto avvenuto negli ultimi due anni, tra fine 2017 e metà 2019: in parte gli anni del negoziato di pace ora nelle secche mentre il Paese è alle prese con l’incertezza delle ultime elezioni presidenziali avvelenate dalle reciproche accuse di brogli tra candidati.
Il rapporto “They’ve Shot Many Like This”: Abusive Night Raids by CIA-Backed Afghan Strike Forces, reso noto ieri, sostiene che milizie locali appoggiate dalla Cia hanno commesso «esecuzioni sommarie e altri gravi abusi impunemente, ucciso illegalmente civili durante i raid notturni, fatto scomparire detenuti, attaccato strutture sanitarie perché si riteneva curassero ribelli».
Le vittime civili di queste incursioni accompagnate da raid aerei americani – aggiunge il rapporto – sono aumentate notevolmente negli ultimi due anni. Se si dovesse arrivare a un accordo politico, conclude Hrw, il futuro governo dovrà disarmare ogni tipo di milizia, compresi i paramilitari che rispondono teoricamente all’intelligence del Paese ma che sono «in gran parte reclutati, formati, equipaggiati e controllati dalla Cia».
Funzionari, società civile, attivisti locali, operatori sanitari afghani e stranieri, giornalisti e anziani «hanno descritto incursioni abusive e attacchi aerei indiscriminati quotidiani nella vita di molte comunità, spesso con conseguenze devastanti». Un diplomatico le ha definite operazioni da «squadroni della morte».
Il rapporto mette il dito nella piaga del lato più oscuro della guerra e arriva a pochi giorni dalle dichiarazioni di Hamdullah Mohib, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Ashraf Ghani. Mohib ha fatto sapere che, se finora non c’erano precondizioni per il dialogo con i Talebani, ora le cose sono cambiate: serve almeno un mese di cessate il fuoco «per verificare che i Talebani controllino davvero i comandanti» militari. Il movimento, accusa Mohib, non è unitario.
Richiesta bizzarra e inaspettata, che complica ulteriormente il compito di Zalmay Khalilzad, l’inviato del presidente Donald Trump che deve far ripartire i negoziati con gli studenti coranici, interrotti a sorpresa da Trump il 7 settembre, quando la firma dell’accordo negoziato a Doha sembrava imminente.
Oltre che a Kabul, l’inviato Usa ha ripreso a girare per le capitali della regione, alla ricerca di un consenso sul processo di pace. Sulla carta tutti si dicono d’accordo. Così i rappresentanti dei governi di Stati uniti, Ue, Francia, Germania, Italia e Regno unito, che il 22 ottobre in un comunicato congiunto hanno incoraggiato la ripresa dei colloqui. E sollecitato il governo a nominare la delegazione che dovrà incontrare i Talebani nel prossimo dialogo «intra-afghano» da tenersi a Pechino tra qualche giorno, dopo quello dello scorso luglio a Doha.
Difficile che la richiesta venga accolta in fretta: a Kabul e nel Paese si aspettano ancora i risultati preliminari delle elezioni presidenziali del 28 settembre. Sarebbero dovuti arrivare a metà ottobre, ma arriveranno il 14 novembre. I due candidati principali, il presidente Ghani e il primo ministro Abdullah Abdullah si dicono entrambi convinti di aver vinto.
La commissione elettorale, intanto, ha rivisto le stime: al voto sarebbero andati meno di due milioni di cittadini. Su 30 milioni di abitanti.