Comunicato stampa congiunto di
Rete Italiana per il Disarmo e Rete della Pace
L’Italia e il mondo intero stanno affrontando la gravissima
emergenza sanitaria derivante dalla pandemia di coronavirus COVID-19,
forse la più grande crisi di salute pubblica (e non solo) del dopoguerra
per i paesi ricchi ed industrializzati. Rete della Pace e Rete
italiana per il Disarmo si uniscono alle voci di vicinanza e
compartecipazione ai problemi che l’intero Paese sta vivendo, con un
particolare pensiero ai familiari delle vittime e un forte sostegno nei
confronti degli operatori della sanità e di chi mantiene operativi i
servizi essenziali.
La drammatica situazione causata dal COVID-19 deve farci riflettere
e ripensare alle nostre priorità, al concetto di difesa, al valore del
lavoro e della salute pubblica, al ruolo dello Stato e dell’economia al
servizio del bene comune, con una visione europea ed internazionale, costruendo giustizia sociale, equità, democrazia, pieno accesso ai diritti umani universali, quali condizioni imprescindibili per ottenere sicurezza, benessere e pace.
Non possiamo però dimenticare che l’impatto di questa epidemia è reso ancora più devastante dal continuo e recente indebolimento del Sistema Sanitario Nazionale a fronte di una ininterrotta crescita di fondi e impegno a favore delle spese militari e dell’industria degli armamenti. Non
siamo cosi sprovveduti da pensare che tutti i problemi sanitari
dell’Italia si possano risolvere con una riduzione della spesa militare
(anche per il diverso ordine di grandezza: 5 a 1), ma è del tutto
evidente che una parte della soluzione potrebbe risiedere proprio nel
trasferimento di risorse dal campo degli eserciti e delle armi a quello
del sistema sanitario e delle cure mediche, tenendo conto che le
tendenze degli ultimi anni dimostrano una strada diametralmente opposta.
Mentre infatti (come dimostrano le analisi della Fondazione GIMBE – Gruppo Italiano per la Medicina Basata sulle Evidenze) la spesa sanitaria ha subito una contrazione complessiva rispetto al PIL passando da oltre il 7% a circa il 6,5% previsto dal 2020 in poi, la spesa militare ha sperimentato un balzo
avanti negli ultimi 15 anni con una dato complessivo passato dall’1,25%
rispetto al PIL del 2006 fino a circa l’1,40% raggiunto ormai
stabilmente negli ultimi anni (a partire in particolare dal 2008 e con una punta massima dell’1,46% nel 2013).
Le stime dell’Osservatorio Mil€x degli ultimi due anni ci parlano di una spesa
militare di circa 25 miliardi di euro nel 2019, (cioè 1,40% rispetto al
PIL) e di oltre 26 miliardi di euro previsti per il 2020 (cioè l’1,43%
rispetto al PIL), quindi quasi ai massimi dell’ultimo decennio.
All’interno di questi costi sono ricompresi sia quelli delle 36 missioni militari all’estero (ormai stabilmente pari a 1,3 miliardi annui circa) sia quelli del cosiddetto “procurement militare”, cioè di acquisti diretti di armamenti. Una cifra che negli ultimi bilanci dello Stato si è sempre collocata tra i 5 e i 6 miliardi di euro annuali.
Sono questi i fondi che servono a finanziare lo sviluppo e l’acquisto
da parte dell’Italia di sistemi d’arma come i caccia F-35 (almeno 15
miliardi di solo acquisto), le fregate FREMM e tutte le unità previste
dalla Legge Navale (6 miliardi di euro complessivi) tra cui la
“portaerei” Trieste (che costerà oltre 1 miliardo), elicotteri, missili.
Senza dimenticare i 7 miliardi di euro “sbloccati” dalla Difesa e dal
MISE, in particolare per mezzi blindati e la prevista “Legge Terrestre”
da 5 miliardi (con Leonardo principale beneficiario).
Contemporaneamente nel settore sanitario sono stati tagliati oltre 43.000 posti di lavoro e in dieci anni si è avuto un definanziamento complessivo di 37 miliardi (dati sempre della Fondazione GIMBE)
con numero di posti letto per 1.000 abitanti negli ospedali sceso al
3,2 nel 2017 (la media europea è del 5). Le drammatiche notizie delle
ultime settimane dimostrano come non siano le armi e gli strumenti
militari a garantire davvero la nostra sicurezza, promossa e realizzata
invece da tutte quelle iniziative che salvaguardano la salute, il
lavoro, l’ambiente (per il quale l’Italia alloca solamente lo 0,7% del proprio bilancio spendendone poi effettivamente solo la metà).
Infine va ricordato come l’Amministrazione statunitense sotto Trump
stia spingendo affinché tutti gli alleati NATO raggiungano un livello
di spesa militare pari al 2% rispetto al PIL. Una richiesta che, secondo
recenti dichiarazioni e notizie di stampa, sarebbe stata accettata
anche degli ultimi Governi italiani: ciò significherebbe un ulteriore esborso per spese militari di almeno 10 miliardi di euro per ogni anno.
Riteniamo questa prospettiva inaccettabile, soprattutto quando è
evidente che dovrebbero essere potenziati i servizi fondamentali per la
sicurezza ed il progresso del Paese, a partire dal Sistema Sanitario
Nazionale, insieme all’educazione, alla messa in sicurezza
idro-geologica del territorio, alla processi di disinquinamento, agli
investimenti per l’occupazione.
Il Governo, proprio in queste ore, ha messo in campo misure
economiche straordinarie per rispondere all’emergenza sanitaria del
coronavirus: “Cura Italia” costa 25 miliardi di denaro fresco, la stessa
cifra del Bilancio della Difesa annuale, e certamente non basterà;
quanto si potrebbe fare di più risparmiandoci le spese militari anche in
tempi ordinari?
In definitiva è essenziale ed urgente:
- rilanciare proposte e pratiche di vera difesa costituzionale dei valori fondanti la nostra Repubblica, come le iniziative a sostegno della Difesa Civile non armata e Nonviolenta. È necessario un aumento delle spese per la sanità, come è pure necessario investire, senza gravare sulla spesa pubblica, a favore della difesa civile nonviolenta e per questo chiediamo che vi siano trasferimenti di fondi dalla spesa militare verso la Protezione Civile, il Servizio Civile universale, i Corpi civili di Pace, un Istituto di ricerca su Pace e disarmo. Proponiamo inoltre che i contribuenti, in sede di dichiarazione dei redditi, possano fare la scelta se preferiscono finanziare la difesa armata o la difesa civile riunita in un apposito Dipartimento che ne coordini le funzioni. Un’opzione fiscale del 6 per 1000 a beneficio della difesa civile potrebbe consentire ai cittadini di contribuire direttamente a questa forma nonviolenta di difesa costituzionale, finora trascurata dai Governi che hanno sempre privilegiato la difesa militare armata;
- ridurre le spese militari ed utilizzare tali fondi per rafforzare la sanità, per l’educazione, per sostenere il rilancio della ricerca e degli investimenti per una economia sostenibile in grado di coniugare equità, salute, tutela del territorio ed occupazione;
- puntare alla riconversione produttiva (anche grazie alla diversa allocazione dei fondi pubblici) delle industrie a produzione bellica verso il settore civile che consentirebbe, inoltre, di utilizzare migliaia di tecnici altamente qualificati per migliorare la qualità della vita (verso l’economia verde e la lotta al cambiamento climatico), non per creare armi sempre più sofisticate e mortali;
Già subito dopo la seconda guerra mondiale il nascente movimento pacifista chiedeva “Ospedali e scuole, non cannoni”,
come ricordava Aldo Capitini alla prima Marcia italiana per la pace e
la fratellanza tra i popoli. Dopo 60 anni ci accorgiamo che quel
semplice slogan non era un sogno utopistico generico, ma una realistica
necessità politica: oggi ci troviamo con ospedali insufficienti e scuole
chiuse, mentre spendiamo troppo per le armi.
Una conversione della difesa dal militare al civile è quello di cui abbiamo tutti bisogno.