giovedì 26 dicembre 2019

Jean-Marie Muller: Significato della nonviolenza

dalla pagina http://dimensionesperanza.it/dossier-pace/item/6596-significato-della-nonviolenza-jean-marie-muller.html
Ciò che caratterizza, in gran parte, ogni dibattito sulla nonviolenza è il fatto che questa non ha un posto rilevante nel nostro passato. Ciò giustifica la nostra prima reazione che non può che essere di diffidenza, di scetticismo, nonché d'ironia, ora bonaria ora cattiva. Perciò si tratta di rendere chiaro questo dibattito, al di là di ogni equivoco, di ogni malinteso e di ogni confusione.
Partire dai fatti
Bisogna partire dai fatti ed è sin troppo evidente che, se ci mettiamo davanti ai fatti, ci troviamo davanti alla violenza. Del resto non saremmo seri nella nostra riflessione sulla nonviolenza se, prima di tutto, non prendessimo sul serio la violenza. Questa violenza, che sembra presente dappertutto attorno a noi, si tratta di comprenderla. Sarebbe troppo facile metterla sul piano della cattiveria o della cattiva volontà. Infatti, la violenza nella nostra società assolve delle funzioni necessarie. Essa è molto spesso la ricerca di soluzioni concrete a dei problemi concreti, che si tratti della difesa delle libertà o della lotta contro l'ingiustizia. Non potremmo accontentarci di una pura e semplice condanna di tutte le violenze quali che siano, da qualsiasi direzione provengano, ponendoci al di sopra della mischia e richiamandoci ad una innocenza che non può essere di questo mondo.
La violenza è una distruzione
Bisogna riconoscere che, in un primo tempo, questa espressione "nonviolenza" è equivoca nella misura in cui appare puramente negativa. Tanto più quando noi siamo abituati a pensare alla violenza riferendola a quantità di valori e di virtù: il coraggio, la virilità, la nobiltà, l'attaccamento alla giustizia e alla libertà... In modo tale che nella nostra coscienza e più ancora nel nostro subconscio, la violenza appare essa stessa come un valore e una virtù di cui la nonviolenza sarebbe la negazione e il rinnegamento. è così che a destra, quelli che si richiamano alla nonviolenza sono accusati di essere traditori della patria e, a sinistra, di essere traditori della rivoluzione.
Infatti, se noi prendiamo coscienza della violenza per ciò che essa e', dobbiamo definirla negativamente, come un attentato fatto alla libertà ed alla dignità di colui che la subisce, come un'alienazione, come una distruzione. "Non bisogna lasciarsi ingannare - scrive Ricoeur -. Il volto della violenza, il fine che essa persegue implicitamente o esplicitamente, direttamente o indirettamente, è la morte dell'altro". Perciò il rifiuto della violenza, la nonviolenza, diviene la condizione preliminare di ogni azione rispettosa di "tutto l'uomo e di tutti gli uomini".
La violenza di oppressione
Bisogna sforzarsi di comprendere non soltanto la violenza ma le violenze, perché la violenza presenta molti aspetti, molte facce, e conviene dunque introdurre delle distinzioni fondamentali.
Ne introdurrò tre:
1) la prima violenza, che Helder Camara definisce la violenza madre di tutte le violenze, è la violenza delle situazioni di ingiustizia. Potremo chiamare questa violenza: la violenza degli oppressori, la violenza dei ricchi e dei potenti per mezzo della quale i poveri sono mantenuti in condizioni di oppressione.
Questo è importante da sottolineare nella misura in cui siamo portati a pensare che la nonviolenza denunci le azioni armate, terroristiche o militari, e metta tra parentesi le situazioni di violenza.
E' importante sottolineare quanto pesi sulla nonviolenza l'equivoco del pacifismo. Il pacifismo si attiene ad una pura e semplice condanna della violenza armata, ma questa dottrina non è in grado di farci assumere fino in fondo le nostre responsabilità di fronte agli avvenimenti. Se il pacifismo si è sviluppato dopo la prima guerra mondiale, bisogna però riconoscere che ha fallito al momento dell'aggressione nazista.
Non si può eludere il problema della difesa delle comunità, e in particolare delle comunità nazionali visto che le nazioni ci sono ancora. è necessario garantire la sicurezza delle comunità. è un problema reale che i pacifisti non hanno saputo risolvere.
Una comunità non potrebbe garantire la sua unità, la sua coerenza, se non ci fosse nei suoi membri il sentimento di vivere in sicurezza. Ora, è un fatto che, fine ad oggi, salvo qualche eccezione, le comunità non hanno saputo trovare altri mezzi per garantire la loro sicurezza che la violenza o la minaccia della violenza, la guerra o la sua preparazione. Il problema, dunque, non è soltanto di trovare un'alternativa alle virtù militari, bisogna trovare anche un'alternativa ai metodi militari. Non è giusto lasciare intendere che basterebbe sopprimere gli eserciti e gli armamenti per avere la pace.
Simone Weil, che era vicinissima agli ambienti pacifisti fra le due guerre mondiali, ha dovuto riconoscere ciò che ha definito "l'errore criminale" del pacifismo. In quel momento è andata a raggiungere anche lei le file della resistenza violenta.
Non si tratta, dunque, di privilegiare la violenza militare e la violenza delle armi. Se è vero che sono le situazioni di ingiustizia che provocano e spiegano le azioni violente, è dunque innanzitutto l'ingiustizia che la nonviolenza denuncia e combatte.
La violenza degli oppressi
2) La seconda violenza è la violenza che nasce dalla rivolta degli oppressi quando essi tentano di liberarsi dal giogo della oppressione che li schiaccia.
Quando gli oppressi, per disperazione, ricorrono alla violenza, noi non possiamo, in nome della nonviolenza, voltare loro sdegnosamente le spalle, sotto il pretesto di un ideale astratto e formale di nonviolenza. La nonviolenza ci deve mantenere sempre legati agli oppressi quand'anche questi adoperino la violenza: non spetta a noi rimettere in discussione questa solidarietà fondamentale. Possiamo avere le nostre opzioni personali, ma non spetta a noi decidere, al posto degli oppressi, dei mezzi che essi devono adoperare per la loro liberazione.
Se la nonviolenza condanna e combatte innanzitutto la violenza degli oppressori, essa però viene a rimettere in questione anche la violenza degli oppressi. Liberare i poveri, vuoi dire anche liberarli dalla loro violenza. Anche questo è un compito dell'amicizia e della solidarietà; non è certo il compito più facile e ciò ci obbliga ancor più a non sottrarcene. Del resto, è troppo facile dimostrare una solidarietà formale con la violenza dei poveri e giustificarla se non prendiamo su di noi i rischi di questa violenza.
La violenza della repressione
3) La terza violenza è la violenza della repressione, essenzialmente legata alla violenza d'oppressione per mezzo della quale i ricchi ed i potenti spezzano i movimenti di liberazione dei poveri.
Ancora una volta, in nome della nonviolenza, dobbiamo dichiararci solidali con quelli che sono vittime di questa violenza di repressione quando la loro lotta è veramente quella della giustizia.
E' chiaro che questo schema non può essere puramente e semplicemente applicato ad ogni situazione concreta; sarà opportuno, partendo volta per volta dall'analisi più rigorosa, correggerlo e adattarlo.
La necessità del conflitto
Nella comprensione della violenza bisogna andare più lontano cercando di situarla al livello in cui sorge, nelle relazioni fra gli uomini.
Il primo rapporto che abbiamo col nostro prossimo è il più delle volte un rapporto di avversione, di opposizione, di scontro. Dobbiamo guardarci da un certo idealismo, di cui si vorrebbe che la nonviolenza resti prigioniera, da un idealismo che lascerebbe troppo facilmente intendere che "tutti gli uomini sono fratelli". In realtà è vero che il mio vicino, il mio prossimo, prima ancora di essere potenzialmente il mio amico, è potenzialmente mio nemico.
Sartre ha trovato una formulazione felice quando scrisse: "il peccato originale è il mio sorgere in un mondo dove c'e' l'altro". L'altro, infatti, è innanzitutto per me quello la cui libertà minaccia la mia libertà, quello i cui diritti vengono a usurpare i miei diritti, quello i cui progetti vengono a compromettere i miei progetti. Dovrò riconoscere, accettare questo momento di conflitto con l'altro, questo momento di opposizione, di lotta, questa prova di forza, al fine di poter far riconoscere i miei diritti e di farli rispettate.
In altre parole la nonviolenza non presuppone un mondo senza conflitti; anzi, ha senso parlare di nonviolenza solo in situazioni di conflitto.
Peguy, proprio contro i pacifisti del suo tempo, diceva che "era una follia voler legare alla dichiarazione dei diritti dell'uomo una dichiarazione di pace perché ogni dichiarazione dei diritti dell'uomo è istantaneamente un inizio di guerra". Se prendiamo questa parola "guerra" nel suo significato più ampio, e se intendiamo per essa: un conflitto, una lotta, un combattimento, una prova di forza, Peguy aveva ragione di andare contro i pacifisti.
Lo stesso Peguy diceva che era da maleducati volere la vittoria e non aver voglia di battersi. In effetti, saremmo maleducati se ci contentassimo di formulare dei voti per un mondo più giusto e non avessimo voglia di batterci contro l'ingiustizia.
Nonviolenza e aggressività
In questa battaglia, non si tratta di reprimere l'aggressività dell'uomo, ma di metterla in opera.
La storia è così piena di violenza che siamo talvolta tentati di credere che quest'ultima sia innata nel cuore umano: parlare di nonviolenza sarebbe allora andate contro la legge stessa della natura.
Tuttavia se ascoltiamo gli psicologi, questi ci dicono che non è la violenza che è inscritta nella natura umana, ma più precisamente l'aggressività, e che non è fatale che l'aggressività si manifesti con la violenza.
L'aggressività è una capacità di combattere, una capacità di affermare se stessi per mezzo della quale io sono portato a rivendicare i miei diritti di fronte all'altro. Senza aggressività io non potrei ne' costruire la mia personalità, ne' salvaguardarla. Senza aggressività non ci potrebbe essere ne' rispetto per se stessi, ne' amore per gli altri.
Questa aggressività bisogna invece disciplinarla, controllarla in modo che si manifesti attraverso altri mezzi, più costruttivi della violenza.
Come disse il padre Cottier, con un'espressione che mi sembra molto suggestiva, la nonviolenza non attecchisce nella speranza di vivere un giorno in "un paradiso devitalizzato dove anziane zitelle tengono al guinzaglio leoni erbivori". Ciò sarebbe molto noioso e, per fortuna, è del tutto inconcepibile.
Bisogna, dunque, accettare questa realtà del conflitto, anzi, in un primo momento, la strategia della nonviolenza si sforzerà di create il conflitto e di risvegliare l'aggressività.
Abusiamo spesso di parole come rivolta, rivoluzione e violenza. In realtà, se consideriamo bene la storia dell'uomo - sia nella nostra vita quotidiana che nella storia dei popoli - ci accorgiamo che il più delle volte, di fronte all'ingiustizia, la sua capacità di rassegnazione è superiore alla sua capacità di rivolta. Quando lo schiavo è sottomesso al suo padrone, non esiste conflitto; al contrario, è proprio allora che "l'ordine è stabilito" e che niente sembra venire a metterlo in causa. Il conflitto incomincia ad esistere dal momento in cui lo schiavo prende coscienza dei suoi diritti e si erge per rivendicarli.
Prendiamo l'esempio di Martin Luther King: per ciò che riguarda il popolo nero degli Stati Uniti, il suo primo e più grande lavoro è stato quello di risvegliare l'aggressività dei neri che si erano rassegnati al loro destino di schiavi. Gli stessi leader neri che in seguito hanno preconizzato la violenza gli hanno riconosciuto questo merito.
La spiritualità degli spirituals neri è una spiritualità di evasione per mezzo della quale i neri riponevano nell'Aldilà la loro speranza in un mondo libero da ingiustizie. Aspettavano il regno di Dio in cui Gesù li avrebbe accolti riconoscendo la loro dignità di uomini. C'era in quel caso come una rassegnazione di quel popolo davanti alla propria storia. Martin Luther King risvegliò, dunque, l'aggressività di questo popolo e creò il conflitto tra i bianchi e i neri - e, come sempre in casi analoghi, ci sono stati naturalmente rischi di scontri violenti.
La rassegnazione, la passività sono dunque più contrarie alla nonviolenza della violenza stessa. Gandhi ha sempre affermato che se la scelta fosse unicamente tra viltà e violenza, tra passività e violenza, allora bisognerebbe scegliere la violenza.
L'importanza dei mezzi
Se, dunque, riconosciamo la necessità della lotta, la necessità dello scontro, allora, è il problema dei mezzi che si pone.
Questo problema dei mezzi è stato troppo trascurato a solo vantaggio della ricerca dei fini. è per questa ragione che molto sbrigativamente si arriva a dire, specialmente nel campo politico, che il fine giustifica i mezzi, vale a dire che il fine giustifica qualsiasi mezzo. Si scivola subito dalla giustificazione del fine alla giustificazione dei mezzi. Ora, questo non è soltanto un problema morale, è anche un problema di efficacia.
Una delle caratteristiche della nonviolenza è precisamente di affermare che, se la scelta dei mezzi vien dopo (è seconda) rispetto al fine da conseguire, non è tuttavia secondaria, è anzi essenziale alla effettiva realizzazione di quel fine. Gandhi diceva: "il fine è nei mezzi come l'albero nel seme". Il compito della nonviolenza sarà giustamente quello di ricercare dei mezzi omogenei al fine che si persegue. Non è un semplice principio teorico: si può benissimo, a livello di critica degli avvenimenti, constatare che l'impiego di mezzi violenti rischia di produrre altre situazioni di violenza, altre situazioni di sfruttamento, anche se assumono forme diverse.
Proviamo ora a mettere in luce il significato della nonviolenza ponendoci successivamente a tre livelli diversi:
- il livello personale;
- il livello delle relazioni interpersonali;
- il livello delle relazioni sociali e politiche.
Non si tratta di separare l'uno dall'altro questi tre livelli; è precisamente una caratteristica della nonviolenza non considerarli staccati, mentre le diverse morali hanno sempre avuto la tendenza a separare, ad esempio, ciò che era della vita privata e ciò che era della vita pubblica; ciò che la morale richiedeva nel campo della vita personale, non lo richiedeva più nel campo della vita sociale e politica.
Passerò molto rapidamente a considerare i primi due punti per arrivare al più presto al problema delle relazioni sociali e politiche che costituisce forse il più grosso problema e al quale siamo più sensibili.
Un dinamismo della speranza
Sul piano personale, la nonviolenza può definirsi come la ricerca di una corrispondenza perfetta tra i nostri pensieri, i nostri sentimenti e le nostre azioni; come la ricerca di una saggezza di vita, come la ricerca del controllo di quella aggressività di cui parlavamo prima.
Sarebbe interessante sviluppare il significato della nonviolenza in quanto rivendicazione di un senso da dare alla vita in un mondo reso assurdo dall'ingiustizia e dalla violenza. è la dimensione filosofica e anche (credo che non si debba aver paura delle parole) la dimensione metafisica della nonviolenza.
La violenza è il segno di una certa assurdità del destino umano. La filosofia comincia con la presa di coscienza della violenza come ostacolo alla riconciliazione dell'uomo con se stesso e con l'altro. Potremo riprendere per esempio tutte le affermazioni di Camus che vanno in tal senso.
Se la violenza è fatale, se l'uomo deve necessariamente farsi complice della violenza, allora la speranza non è possibile.
In questo senso la nonviolenza ci permette di affermare che la speranza è possibile. Essa ci colloca in un dinamismo della speranza che ci libera dalla fatalità della violenza. Ciò non è legato, infine, ad alcuna filosofia particolare, ma ad ogni filosofare. Non ci può essere altra filosofia che quella della nonviolenza.
Ogni filosofia, e così pure ogni morale, non può non riconoscere la violenza come una contraddizione, per cui non è più possibile avanzare alcuna giustificazione della violenza. La violenza è giustificata nella misura in cui noi non abbiamo più il sentimento che essa è una contraddizione in rapporto alle aspirazioni profonde dell'uomo, allorquando ci stabiliamo nella violenza. Il fallimento delle ideologie consiste nel fatto che esse hanno creduto di dovere, sotto un falso pretesto di realismo, venire a giustificare la violenza e integrarla nell'ideale umano.
I grandi maestri della nonviolenza, che si tratti di Tolstoi, di Gandhi, di Martin Luther King, e anche più vicino a noi, di Cesar Chavez, hanno legato, nel loro cammino personale, la scelta della nonviolenza ad una fede religiosa. Ma non è necessariamente così; degli uomini come Danilo Dolci hanno provato che la nonviolenza poteva trovare la sua radice in una visione dell'uomo che non era religiosa, ma che afferma ugualmente questa speranza: di fronte all'esistenza quotidiana e di fronte alla storia, è possibile superare questa fatalità della violenza.
Chiamare crimine un crimine
Detto questo, è logico che ci troveremo sempre nel compromesso con la violenza; non si tratta di pretendere una "nonviolenza assoluta". Gandhi ha insistito su questo punto: "fino a che non saremo degli spiriti puri la nonviolenza perfetta sarà altrettanto teorica quando la linea retta di Euclide".
Ma le filosofie e le morali devono sempre chiamare compromesso un compromesso. Ricoeur dice: "Colui che chiama crimine un crimine, è già sulla via del senso e della salvezza". Le violenze delle quali abbiamo coscienza di essere complici esigono non una giustificazione ma una riparazione. Se la violenza è un diritto per l'uomo, questo si adatta, si adegua all'uso della violenza e non ci sarà più nessuna ricerca per superare questo atteggiamento; l'immaginazione, la creazione sono esse stesse bloccate e non possono più proporre altre vie. Ora è essenziale, qualunque sia il riferimento culturale in rapporto al quale ci situiamo, di ritrovare il senso della contraddizione di ogni violenza.
La nonviolenza appare qui come una dimensione essenziale della rivoluzione culturale che deve essere realizzata perché possa compiersi, senza tradire se stessa, la rivoluzione delle strutture.
Le relazioni interpersonali
Sul piano delle relazioni interpersonali, dirò semplicemente due parole, perché qui ci siamo spesso trovati nella stessa situazione del signor Jourdain che faceva della prosa senza saperlo; abbiamo soddisfatto le esigenze della nonviolenza senza saperlo.
Nel campo delle relazioni interpersonali, le morali e le filosofie hanno sempre insistito sulla ricerca del dialogo piuttosto che sulla giustificazione della violenza, su questa necessità che c'e' da fare richiamo alla ragione per convincere, alla coscienza per convertire.
A questo livello si è sempre privilegiato il perdono rispetto alla vendetta. Il perdono è certamente un atteggiamento più virile della vendetta. E si potrebbe parlare, in questa prospettiva, del sacrificio, dell'accettazione, senza compiacimento, della sofferenza come condizione di un amore autentico del prossimo. Al di fuori di tutte le deviazioni nel senso del masochismo, c'e' posto, in ogni lotta nonviolenta, per l'accettazione dei più grandi rischi e delle più grandi sofferenze.
D'altronde, tutte le società hanno saputo darsi dei tribunali capaci di condannare come criminali - con (notiamolo) un raddoppiamento della violenza - quelli che hanno fatto uso della violenza sul piano delle relazioni interpersonali.
La specificità del politico
Arrivo subito al problema delle relazioni sociali e politiche.
Queste non devono, come un certo spiritualismo ha preteso, essere poste nel quadro allargato delle relazioni interpersonali, perché a questo livello le relazioni umane sono notevolmente condizionate - io non direi determinate, come certuni forse penseranno - dalle strutture della società. La nonviolenza non intende porre soltanto dei problemi che troverebbero la loro origine e la loro soluzione in un rapporto fra persona e persona, ma dei problemi sociali e politici che non possono porsi e risolversi che in termini di strutture. Così c'e' sicuramente una consistenza propria del politico, tuttavia non penso che ci sia un'autonomia del politico. Certo, nel campo politico, non è sufficiente attenersi alle esigenze morali. Le buone intenzioni non bastano a far della buona politica. La legge dell'azione deve sottostare alle esigenze della efficacia. Non basta, come diceva Bernanos, "aver ragione contro l'errore, bisogna averne ragione".
Morale e politica
E' vero che il politico deve basarsi su un'analisi razionale e obiettiva delle situazioni e deve ricorrere ai mezzi tecnici che gli permetteranno di far riuscire i suoi progetti. Ma è anche vero che il politico, essendo al servizio dell'uomo e avendo per preciso fine quello di creare le migliori condizioni possibili all'uomo per condurre la sua esistenza, non può sottrarsi alle esigenze della morale. Se il politico è veramente al servizio dell'uomo e se la morale è ciò che stabilisce il rispetto di tutto l'uomo e di tutti gli uomini, allora appartiene effettivamente alla morale giudicare ed apprezzare il politico, sia nei fini che persegue che nei mezzi che adopera.
Così non possiamo restare prigionieri dell'alternativa secondo la quale non avremmo scelta che tra mezzi morali ma inefficaci e mezzi efficaci ma immorali: non è possibile basare l'efficacia dell'azione dell'uomo al di fuori della moralità.
Quali sono, in effetti, i criteri dell'efficacia?
L'efficacia: per fare che cosa?
L'efficacia: per quale società?
È qui che la moralità di un'azione politica appare come uno dei criteri essenziali della sua efficacia. Si può dire che una azione non è efficace, nella misura stessa in cui viene a contraddire le esigenze della morale. Siamo allora costretti, per amore o per forza, a ricercare dei mezzi efficaci che possano soddisfare le esigenze della morale.
Una dimostrazione di forza
Qui è necessario che noi parliamo in termini di strategia. Bisogna mettere l'accento non tanto sulle disposizioni soggettive delle persone, sui buoni o cattivi sentimenti, sulle buone o cattive intenzioni delle persone, ma sulle obiettive situazioni in cui esse si trovano nella società, sulle situazioni di potenza o d'impotenza. L'azione nonviolenta è una prova di forza.
Riferendosi a formule utilizzate da Gandhi, la nonviolenza è stata spesso definita come la forza dell'amore e della verità. In effetti al di fuori dell'amore e della verità non c'e' speranza possibile per una società più giusta e più libera. Ma noi non possiamo accontentarci di definire la nonviolenza come forza dell'amore e della verità, perché nei conflitti politici potremmo chiederci a lungo cosa significhi la forza dell'amore e della verità. Bisogna guardarsi dal nascondersi dietro certe formule che vogliono dire tutto e niente allo stesso tempo.
Infatti, un'azione nonviolenta non è una dimostrazione d'amore. Essa è molto più precisamente una dimostrazione di forza. La nonviolenza, non è l'amore, ma piuttosto la ricerca di tecniche e di metodi di lotta compatibili con l'amore, compatibili con il rispetto della verità. Ci sembra che qui già gli accenti sono posti diversamente. Si tratta di situarsi in una visione dell'uomo che non è moralistica, anche se è morale. Si tratta di porsi in una visione politica.
Il principio di non-cooperazione
Qual'e' la strategia dell'azione nonviolenta?
Il principio essenziale di questa strategia è il principio di non-cooperazione; io lo chiamerei meglio: principio di non-collaborazione. Esso si fonda sulla seguente analisi: la forza dell'ingiustizia nella società deriva dalla complicità che la maggioranza dei membri di questa società apporta a questa ingiustizia.
Il nostro dibattito sulla violenza e la nonviolenza sarebbe falsato se presupponessimo che di fronte alla ingiustizia, la nostra prima tentazione è sempre la tentazione della violenza. Ancora una volta, noi ci accontenteremmo di parole. Infatti, di fronte alla ingiustizia siamo pochissimo tentati dall'uso della violenza perché, il più delle volte, la violenza ci pare troppo rischiosa. Del resto la nonviolenza non intende fare nessun processo alle intenzioni di quelli che ricorrono alla violenza perché spesso essi si assumono i più grossi rischi; e noi dobbiamo, al contrario, rispettarli. Ma sarà sempre una piccola minoranza che farà ricorso alla violenza di fronte all'ingiustizia. Il più delle volte, siamo tentati di cooperare con questa ingiustizia, di collaborare con essa. Ciò si capisce facilmente nella misura in cui questo atteggiamento di complicità salvaguarda i nostri interessi, la nostra tranquillità, il nostro comodo.
Il vero dibattito, perciò, non è tanto, come invece si fa con un certo compiacimento, di opporre la resistenza violenta di una piccola minoranza a ciò che potrebbe essere la resistenza nonviolenta, ma piuttosto di opporre alla passività, complicità, collaborazione della maggioranza ciò che potrebbe essere la resistenza nonviolenta. A questo punto il dibattito si presenta già in prospettive diverse.
Si tratta, dunque, di mettere in opera questa non-cooperazione, cercando di far beneficiare dell'apporto del numero le azioni condotte.
Se soltanto alcuni si dispongono a non cooperare con l'ingiustizia, benché il loro atteggiamento sia del tutto giustificato e s'imponga ad essi in ogni caso, l'azione intrapresa non può avere la pretesa d'incidere sul piano politico. Quelli che hanno rifiutato di fare le guerre di Hitler (penso ai tedeschi e agli austriaci che sono stati le prime vittime del nazismo), quelli, proprio perché erano un piccolo numero, non hanno potuto cambiare il corso degli eventi. Tuttavia saremmo tutti unanimi nel riconoscere che solo il loro atteggiamento era giustificato sia sul piano morale che su quello politico.
Quando si organizzano queste azioni di non-cooperazione, bisogna mirare ad esaurire le sorgenti del potere dell'avversario. Si tratta di rifiutare ogni cooperazione con le istituzioni, le strutture, le leggi, i sistemi, i regimi che creano o che mantengono l'ingiustizia, al fine di metterli "in condizione di non nuocere".
Diviene chiaro qui che l'azione nonviolenta non è soltanto una azione di persuasione, ma anche una azione di costrizione.
Allora come arrivare a precisare meglio questa strategia nonviolenta?
Innanzitutto a partire dall'analisi.
Io insisto su questa necessità dell'analisi, ma non farò ulteriori precisazioni perché non è il mio proposito. è chiaro che non si tratta di applicare delle esigenze morali a una realtà che non conosciamo. Si tratta invece di analizzare questa situazione. E qui, la nonviolenza non ci apporta una competenza particolare; la divergenza, a livello di analisi, non è certamente tra quelli che si richiamano alla nonviolenza e quelli che si richiamano alla violenza.
A partire dall'analisi di ciascuna situazione concreta, converrà condurre una prova di forza per stabilire un rapporto in favore di quelli che sono vittime dell'ingiustizia.
Le azioni di protesta
Il primo passo sarà quello di realizzare delle azioni di protesta pubblica contro l'ingiustizia: sfilate, marce, sit-in, etc. è d'altronde a queste azioni che noi siamo più spesso, se non quotidianamente, chiamati. Io preciserei semplicemente due punti.
Innanzitutto a proposito della spiegazione che si dà della manifestazione: il più delle volte, sia attraverso volantini che slogan, si arriva troppo facilmente alla condanna sistematica, e perciò spesso semplicistica, dell'avversario; ci si compiace di maneggiare l'invettiva e l'ingiuria. E', molto spesso, sia una ingiustizia che un errore strategico. Perché, infatti, quelli che manifestano devono manifestare per farsi capire da quelli che non manifestano. Ogni movimento di resistenza deve sforzarsi di avere le migliori "relazioni pubbliche" con la maggioranza dei membri di questa società. Nel campo delle relazioni pubbliche, se è un obbligo attenersi alle esigenze della morale, è una necessità soddisfare le esigenze della psicologia. è certamente inopportuno maneggiare l'ingiuria per voler convincere della giustezza di una causa; questo comporta il rischio ben più grande di indisporre il pubblico e di discreditare la manifestazione.
Così un'esigenza della nonviolenza sarà la "pacificazione della parola".
E' solo per un pregiudizio che noi pensiamo di transigere sui fini di giustizia che ci siamo dati, se siamo educati con l'avversario. Questo atteggiamento di cortesia nei riguardi dell'avversario, che si manifesta con la parola, attraverso il testo di un volantino o il contenuto di uno slogan, viene a stabilire un'atmosfera già diversa nel conflitto intrapreso.
Converrà così, per esprimersi, ricorrere quanto più è possibile allo humour. Lo humour è certamente la migliore protezione contro l'odio. Lo humour ci dispensa dal disprezzare il nostro avversario. Se noi facessimo più umorismo faremmo meno spesso la guerra.
Un altro punto al quale siamo molto sensibili è l'atteggiamento dei manifestanti davanti alle forze di polizia. è vero che un certo razzismo si è sviluppato, da molti anni a questa parte, nei confronti dei poliziotti. Ancora una volta, dobbiamo chiederci se questo non sia insieme un'ingiustizia e un errore strategico. Qui l'esigenza della nonviolenza sarà anche di attenersi ad un atteggiamento di stretta cortesia nei confronti dei membri del servizio d'ordine. Ciò dovrebbe permettere un clima più propizio a reali soluzioni, piuttosto che arrivare a voler sistematicamente "lanciare la pietra" sui poliziotti, talvolta nel vero senso della parola, talvolta nel senso figurato.
Lo sciopero della fame
Lo sciopero detta fame è una delle azioni di protesta più specifiche della nonviolenza. Ha raggiunto un notevole sviluppo in questi ultimi tempi ed è stato utilizzato da quelle stesse persone che generalmente intendono usare mezzi violenti, o per lo meno, non intendono escluderli. Si corre forse il rischio di abusare di questo mezzo; si tratta, quindi, di non condurre scioperi della fame a sproposito. D'altronde, uno sciopero della fame non è sempre nonviolento: se i volantini che lo accompagnano usano ad ogni riga l'ingiuria, dobbiamo mettere in discussione il suo carattere nonviolento.
Dobbiamo sottolineare ancora che lo sciopero della fame non è nonviolento se diventa un ricatto nel confronti dell'avversario. C'e' ricatto quando si lascia capire, più o meno esplicitamente, che quelli che sono entrati in sciopero - prenderei, in particolare, l'esempio di uno sciopero illimitato - fanno cadere la responsabilità della loro morte, se morte ci sarà - e non si potrebbe escludere a priori - sull'avversario. è un ricatto inammissibile. L'avversario porta su di sé la responsabilità dell'ingiustizia per la quale conduco le sciopero della fame, ma se conduco uno sciopero della fame, devo prendere fino in fondo le mie responsabilità e non far cadere su altri la responsabilità dei rischi cui vado incontro.
Le azioni di costrizione
Ma la nonviolenza non può limitarsi alle azioni di protesta.
Dopo aver esaurito le possibilità del dialogo, le possibilità del negoziato, bisogna passare all'azione diretta. Perché, ancora una volta, contrariamente a quello che si lascia troppo spesso capire, la nonviolenza non si limita alla pratica del dialogo. Il più delle volte, il dialogo non è possibile tra gli oppressori e gli oppressi. Il dialogo non è possibile tra quelli che sono troppo potenti e quelli che sono troppo poveri. Quando ci sono scontri di piazza, delle anime "candide" ci richiamano subito al negoziato, al dialogo, e invitano le due parti che si scontrano al tavolo delle trattative. Generalmente questi appelli alla ragione sono vani. Bisogna dunque rovesciare i termini e non dire che il negoziato è il mezzo per risolvere il conflitto, ma che il conflitto è un mezzo per risolvere il negoziato. è proprio perché il negoziato non è possibile che il conflitto è necessario per rendere possibile il negoziato e per creare le condizioni in cui il dialogo e il negoziato saranno possibili.
Quando M. L. King condusse la sua prima azione di una certa ampiezza, il boicottaggio degli autobus a Montgomery, aveva solo 26 anni (credo che non si sia sufficientemente sottolineato il fatto che M. L. King era già leader nazionale dei neri ad un'età in cui non gli era possibile assumersi tutte le responsabilità che lo schiacciavano) e, nella sua ingenuità - lo dice molto semplicemente nei suoi scritti autobiografici - si immaginava che dopo un po’ di giorni sarebbe stato possibile iniziare il dialogo e condurre a buon fine i negoziati con il potere bianco. Ha dovuto ricredersi e accorgersi che il dialogo non era possibile. C'e' voluto più di un anno di questo boicottaggio degli autobus, condotto in condizioni estremamente difficili per rendere possibile il dialogo.
Si fa ricorso alle azioni dirette per esercitare sull'altro reali costrizioni sociali, per poter negoziare al fine di soddisfare le rivendicazioni degli oppressi.
Quali sono i mezzi?
Lo sciopero
Lo sciopero, nel senso in cui l'intendiamo generalmente, è un metodo che si apparente direttamente all'azione nonviolenta: è una azione di non-cooperazione, di non-collaborazione con le strutture ingiuste. L'analisi sulla quale si fonda lo sciopero è questa: se i borghesi, vale a dire i proprietari dei mezzi di produzione, non possono mantenere il loro potere e la loro ricchezza che grazie alla collaborazione dei lavoratori, si tratta per questi di cessare ogni attività per obbligarli a cedere.
Sarebbe sicuramente derisorio, e ciò è al di fuori del nostro proposito, pretendere di recuperare gli scioperi operai nel grembo della nonviolenza. Spesso gli scioperi sono stati condotti in un clima di violenza, anche se queste violenze sono state marginali in rapporto allo sciopero propriamente detto. Ci si può d'altronde chiedere se queste violenze non siano venute piuttosto a screditare lo sciopero che a rafforzarlo. Parecchi esempi (come lo sciopero di Perus in Brasile) ci mostrano che uno sciopero può essere condotto con più efficacia in una prospettiva nonviolenta.
Il boicottaggio
Il boicottaggio è ugualmente un metodo di non-cooperazione sul piano economico: rifiuto di far beneficiare l'altro del mio potere d'acquisto che diventa allora veramente un potere che io oppongo a quello del mio avversario. C'è soltanto da constatare che questa forma di lotta è stata pochissimo utilizzata se non in maniera troppo spontanea ed effimera; potrebbe certamente essere utilizzata meglio, in particolare nell'ambito delle lotte operaie.
Per togliere la segregazione nei grandi magazzini bianchi degli Stati Uniti, che avevano una fortissima clientela nera e nonostante ciò si rifiutavano di assumere personale nero - creando per conseguenza situazioni di sottoimpiego e dunque di miseria -, Martin Luther King e il suo gruppo decisero il boicottaggio di questi magazzini fino a che un numero sufficiente di posti di lavoro non fossero stati creati per i neri.  Da quel giorno più nessun nero andò a rifornirsi in quei magazzini. Molto rapidamente, dopo una settimana o due, i proprietari di quei magazzini decisero di soddisfare le richieste di M. L. King.
E' interessante chiedersi quali abbiano potuto essere le ragioni che hanno indotto i proprietari di quei magazzini a cedere alle rivendicazioni di Martin Luther King. Si erano forse convinti dei giusti diritti dei neri?  Si erano forse convertiti? Forse. Noi avremmo torto ad escludere del tutto questa eventualità. Tuttavia la più verosimile è che la minaccia del fallimento, che incombeva su quei magazzini, li ha costretti e cedere: ciò traduce perfettamente la nozione di costrizione e tuttavia di una costrizione senza violenze.
La lotta di classe
Esaminerò un altro esempio concreto, recente, che illustra in maniera notevolissima la possibilità di condurre con la nonviolenza uno sciopero e un boicottaggio nel quadro della lotta di classe.
Si dice spesso che la nonviolenza può forse soddisfare le esigenze spirituali o intellettuali dei ricchi e dei benestanti, ma che non può assolutamente armare la lotta degli oppressi. Credo che tutto ciò sia fondato, soprattutto, su malintesi.
Gli ambienti spiritualisti, o notoriamente gli ambienti cristiani, hanno per molto tempo rifiutato di riconoscere non soltanto la lotta di classe, ma la realtà stessa della lotta di classe. Si diceva che il cristianesimo non insegnava la lotta di classe, ma l'amore delle classi, come se fosse possibile l'amore in situazioni di ingiustizia. è una presa in giro predicare l'amore quando da una parte esistono poveri che restano poveri e dall'altra parte ricchi che intendono restare ricchi. Logicamente, ciò non vuol nemmeno dire che il fatto di riconoscere la lotta di classe e parteciparvi debba necessariamente sfociare in scontri violenti. Ma c'e' una certa nonviolenza che non merita nemmeno di essere presa in considerazione: quando i poveri sono pronti a scendere in piazza per far riconoscere i loro diritti, forse da quel momento i ricchi saranno tentati di parlare di nonviolenza. In questo senso vi è un rischio di recupero della nonviolenza da parte delle classi privilegiate. Ciò spiega quella diffidenza, così caratteristica di quelli che sono impegnati nella lotta per la giustizia, nei confronti della nonviolenza: hanno paura che essa generi una certa smobilitazione. Ma, al di là degli equivoci, deve essere invece chiaro che non soltanto la nonviolenza non è smobilitazione, ma che è un appello alla mobilitazione, un appello alla lotta.
L'azione di Cesar Chavez
L'azione di Cesar Chavez condotta in California, purtroppo poco conosciuta da noi, è un esempio di come anche quelli che sono i meno preparati hanno la possibilità di mettere in opera i metodi nonviolenti, a condizione che i responsabili dell'azione, i leader del movimento, diano ordini precisi in questo senso.
Cesar Chavez non è venuto in mezzo ai poveri, è nato in mezzo a loro; è nato in mezzo a quegli americani di origine messicana gli "chicanos", che costituiscono la mano d'opera preferita dai grandi proprietari agricoli degli Stati Uniti. Se i sindacati operai sono completamente integrati nello "establishment" della società americana, non è la stessa cosa nel campo agricolo.
Tradizionalmente, i proprietari di vigneti californiani, che sono veri e propri imperi industriali, utilizzavano una popolazione di origine messicana, che costituiva un tipo di sottoproletariato, al tempo stesso disorganizzato e supersfruttato. Tutti gli sforzi che erano stati compiuti fino allora per giungere all'organizzazione di questa popolazione erano falliti. Tanto erano potenti i proprietari di questi vigneti.
Cesar Chavez ha fatto prima di tutto, per parecchi anni, un lavoro di "coscientizzazione" e di organizzazione.
Indisse, poi, uno sciopero con certe esigenze precise riguardo alla nonviolenza, che si estese molto rapidamente. I proprietari, aiutati dalle autorità federali, cioè governative, poterono comunque reclutare altrettanto rapidamente altri lavoratori messicani che non chiedevano altro che guadagnare un po’ di denaro per sopravvivere. C'erano dunque dei "crumiri" che hanno permesso il raccolto dell'uva, sebbene ci fossero stati picchetti di sciopero che, ancora una volta, non intendevano fare uso della violenza ma tentavano di mostrare il senso dello sciopero e che era nell'interesse di tutti parteciparvi.
A questo punto, davanti al rischio di veder fallire lo sciopero, Cesar Chavez decise di affiancare allo sciopero il boicottaggio. Proclamò così il boicottaggio dell'uva, dapprima nelle grandi città degli Stati Uniti. Gli scioperanti organizzarono picchetti di boicottaggio in cui cercavano di spiegare le ragioni del loro movimento e i suoi obiettivi. Questo boicottaggio si dimostrò, molto presto, di un'efficacia sorprendente. Cbavez ottenne subito il concorso dei militanti del movimento di M. L. King, e in particolare degli studenti impegnati in quel movimento. In breve tempo, il boicottaggio dell'uva divenne effettivo su tutto il mercato nazionale.
Allora, come in tutte le azioni nonviolente d'un qualche rilievo, la repressione si abbatté su questo movimento: gli scioperanti ebbero a subire violenze fisiche; ci furono processi promossi dai proprietari, il presidente Nixon prese posizione contro gli scioperanti e arrivò al punto di prendersi beffa di loro mangiando un grappolo d'uva davanti alle telecamere. Per vendere il loro prodotto i proprietari decisero di esportare l'uva: interi mercantili furono spediti a Londra; ma i dockers di Londra, per solidarietà col movimento di Cesar Chavez, si rifiutarono di scaricare l'uva. Ultimo tentativo fu quello di spedire l'uva ai soldati americani nel Vietnam che dovettero mangiare uva dalla mattina alla sera. Ma ciò non è stato sufficiente. Dopo uno sciopero e un boicottaggio durati cinque anni, i proprietari furono costretti a cedere alle rivendicazioni di Cesar Chavez.
Oggi, questi è diventato il leader di tutti gli operai agricoli americani; i sindacati riprendono sempre di più questi metodi nonviolenti e tentano di accoppiare lo sciopero col boicottaggio.
Per mostrare come per Cesar Chavez la nonviolenza non fosse un aspetto secondario della sua lotta, conviene precisare il suo atteggiamento di fronte ai rischi di violenza che ha dovuto fronteggiate.
Se l'azione nonviolenta consiste in un primo tempo nel risvegliare l'aggressività dei poveri, nel creare il conflitto, è dunque inevitabile che ci siano rischi di violenze. Se si risveglio la coscienza degli oppressi e se questi prendono coscienza del loro stato di oppressione, non ci sarà da stupirsi se da un momento all'altro, esasperati, ricorrono alla violenza. Ma a questo punto, Cesar Chavez, al fine di evitare la crescita della violenza, intraprese un digiuno sia per motivi personali che per ragioni tattiche (sapeva bene che se scoppiava la violenza, i proprietari avrebbero potuto benissimo scatenare una repressione brutale). Digiunò per venticinque giorni, non perché i proprietari cedessero alle sue esigenze, ma perché gli operai stessi accettassero di attenersi ai principi dell'azione nonviolenta. Dopo quei 25 giorni di digiuno, essi giunsero ad un accordo, ciò che ha certamente reso possibile al movimento di durare e infine di riuscire.
Il boicottaggio del caffè dell'Angola
Ricordiamo anche il boicottaggio del caffè dell'Angola organizzato nei Paesi Bassi agli inizi del 1972.
Una delle fonti più importanti per il finanziamento della guerra coloniale condotta dal Portogallo proveniva dalle imposte che pesavano sull'esportazione dei prodotti agricoli delle colonie.
Ora, da una parte, il caffè dell'Angola rappresentava una parte importante dell'esportazione totale (32%) e, dall'altra parte, i Paesi Bassi erano il secondo paese importatore di questo caffè (21% del totale).
Nel febbraio 1972 un comitato d'azione per l'Angola lancia il boicottaggio del caffè organizzando una campagna d'informazione sulla situazione nelle colonie portoghesi e mostrando come il fatto di consumare del caffè angolano è un atto di collaborazione con la politica condotta dal Portogallo. Questa azione ebbe una larga eco tra la popolazione olandese e il boicottaggio riscontrò rapidamente un grande successo. Alla fine di un mese, nemmeno un grano di caffè dell'Angola era più in vendita sul mercato dei Paesi Bassi.
Il Portogallo aveva perduto una battaglia e l'opinione pubblica olandese era mobilitata per altre battaglie.
La disobbedienza civile
La più forte azione di non-collaborazione è l'azione di disobbedienza civile.
Si rimprovera spesso alla nonviolenza di promuovere talvolta la disobbedienza alle leggi.
Se da sinistra siamo accusati di disinnescare la rivoluzione e di smobilitare le energie e le volontà necessarie nella lotta per la giustizia, così da destra siamo accusati di rimettere in discussione la legalità e l'ordine stabilito e di preparare la strada ad una rivoluzione che non sarebbe affatto nonviolenta.
E' vero che la nonviolenza preconizza la disobbedienza alle leggi, ma non la preconizza a sproposito. In ogni società le leggi hanno una loro funzione. La funzione della legge è insieme quella di mantenere l'ordine e di promuovere la giustizia; essa perciò deve difendere i diritti dei più poveri contro i privilegi dei più ricchi. C'e' da dire poi che le leggi non sono stabilite una volta per tutte: bisogna costantemente rimetterle in discussione per migliorarle. Quando la legge non adempie più alla sua funzione, anzi, al contrario, viene a difendere maggiormente gli interessi dei privilegiati, dei ricchi e dei potenti contro, invece, gli interessi dei più sfavoriti, quando la legge copre e garantisce l'ingiustizia, non soltanto è un diritto, ma è un dovere disobbedire ad essa.
Non si tratta evidentemente di predicare la disobbedienza alla legge in maniera sistematica; si tratta semplicemente di non predicare sistematicamente l'obbedienza alla legge.
La legge della maggioranza non può imporsi a noi su dei problemi di coscienza. è ragionevole che noi ci sottomettiamo su problemi di ordine puramente tecnico alla legge della maggioranza, anche perché su tali problemi le nostre non sono convinzioni ma soltanto opinioni. Su problemi che impegnano invece realmente la nostra responsabilità morale, non ci è possibile rimetterci in maniera pura e semplice alla legge della maggioranza. è a questo punto che la nonviolenza preconizza la disobbedienza civile. Questa possibilità di disobbedire alla legge è necessaria all'equilibrio stesso della democrazia.
Infatti, non si tratta di cessare di essere solidali: colui che in coscienza obietta, accetta di essere solidale, ma si rifiuta di essere complice.
Nella dottrina ufficiale degli Stati, ogni cittadino ha veramente la possibilità di esprimersi votando. Se non dobbiamo disprezzare il suffragio universale (penso a certi amici nostri che sono in lotta nei paesi totalitari per ottenere il suffragio universale) dobbiamo, però, riconoscerne i limiti. Bernanos diceva che "il suffragio universale non rende alla fin fine più liberi gli uomini di quanto la lotteria nazionale non li renda ricchi".
Non conviene operare soltanto perché il potere cambi politica o per provocare un cambiamento di potere, conviene esercitare effettivamente il proprio potere di cittadino libero rifiutando da questo momento, con un atto di disobbedienza civile, ogni collaborazione personale con l'ingiustizia. Gandhi afferma: "la vera democrazia non verrà dalla presa del potere da parte di qualcuno, ma dal potere che tutti avranno un giorno di opporsi agli abusi delle autorità". Sulla strada che conduce alla vera democrazia, la presa del potere per il popolo è una delle più pericolose deviazioni dove si finisce molto spesso per perdersi. La nonviolenza ci insegna, perciò, a evitare questa deviazione: nel suo aspetto rivoluzionario, essa non ha per proprio fine la presa del potere per il popolo, ma la presa del potere direttamente da parte del popolo stesso. Non è lo Stato forte a costituire la vera democrazia, ma i cittadini liberi.
Tra l'insufficienza della scheda elettorale e l'inefficacia del lancio di pietre, la disobbedienza civile appare qui come una via privilegiata per l'azione politica.
La vera figura di Gandhi
Prenderò un esempio concreto di disobbedienza civile nella lotta condotta da Gandhi per l'indipendenza dell'India.
Voglio aprire una parentesi sulla figura di Gandhi perché nella maggior parte dei casi mi pare lo si conosca male. Il suo personaggio è stato volgarizzato da qualche immagine di Epinal che ce lo rappresenta seduto per terra, il dorso nudo, che fila la lana, e ci diciamo allora volentieri che questo saggio orientale non ha nulla da dirci sui nostri problemi.
Facciamo nostra la sprezzante espressione di Churchill che derideva Gandhi accusandolo di non essere che un "fachiro magro e nudo". Se riconosciamo che Gandhi ha potuto acquistare l'indipendenza del suo paese di fronte all'impero britannico, attribuiamo allora il merito di questo al "fair-play" dei gentlemen britannici, come se a quell'epoca l'impero britannico fosse pronto a lasciare le Indie e come se fosse bastata la santità attribuita, a torto o a ragione, a Gandhi perché gli Inglesi accettassero di partire. Credo che sarebbe interessante studiare a fondo quali siano le azioni di Gandhi e quale fu la sua strategia. è utile sottolineare, a questo proposito, che i membri del Congresso dell'India, primo dei quali Nehru, non condividevano le convinzioni religiose e morali di Gandhi. Se Nehru accettò di seguire Gandhi nella pratica della nonviolenza è soltanto perché questa si dimostrò efficace. E il popolo indiano non era per niente pronto ad attenersi alle esigenze della nonviolenza di Gandhi, che è estranea alla tradizione religiosa dell'India. Come tutti gli altri popoli, e forse più ancora degli altri, il popolo indiano oscilla tra la rassegnazione e la violenza. Infatti, la nonviolenza di Gandhi non è orientale ma occidentale, non invita alla meditazione al di fuori dei conflitti ma all'azione all'interno dei conflitti.
La marcia del sale
Nel 1930, Gandhi decise di sfidare il governo (ogni azione di disobbedienza civile è una sfida al governo) organizzando la disobbedienza ad una legge che nel contesto globale della dominazione britannica appariva irrisoria: si trattava della legge sul sale. Essa imponeva a tutti gli indiani di pagare una tassa relativamente alta al governo inglese. Questa minima ingiustizia veniva a simboleggiare tutta l'ingiustizia della dominazione britannica.
Gandhi organizzò una lunga marcia attraverso l'India per diverse centinaia di chilometri. In ogni villaggio che attraversava, coscientizzava gli abitanti e li invitava alla disobbedienza civile. Giunto sulla spiaggia del mare, compì il simbolico gesto di raccogliere dell'acqua per poterne estrarre il sale. Da quel momento preciso, Gandhi per l'impero britannico era diventato un ribelle. Il governo, a dir la verità, era molto imbarazzato perché, o arrestava Gandhi, facendone così un martire e aumentandone di conseguenza il prestigio presso le masse indiane, o non lo arrestava affatto, dimostrando così di tollerare la sfida aperta e dando, in tal modo, prova di debolezza. Il riflesso professionale delle autorità ebbe il sopravvento nella risoluzione di questo dilemma: si arrestò Gandhi ma si dovettero arrestare pure tutti quelli che lo avevano imitato; perché questi, non soltanto accettavano di andare in prigione, ma esigevano di andarci. Esiste, però, un limite di saturazione delle prigioni oltre il quale un governo non può più governare in completa serenità. Si può discutere sulla proporzione necessaria di quelli che sono disposti ad andate in prigione per far sì che un popolo sia più forte di qualsiasi governo - Martin Luther King parlava di un 5 per cento.
Alla fine il governo dovette cedere e accettare di negoziare con Gandhi: non soltanto discussero del problema del sale, ma anche del problema dell'indipendenza.
La violenza è l'arma dei ricchi
Vorrei ancora insistere su questo punto che mi pare essenziale: di fronte alle situazioni d'ingiustizia, arriviamo spesso a pensare e a dire che non esiste più che una sola soluzione e che questa soluzione è la violenza.
Ma dobbiamo chiederci: quale soluzione può essere la violenza? E anche: la violenza può veramente essere una soluzione?
Prendo un esempio su cui abbiamo molto parlato: quando M. L. King morì, ovunque si sostenne che con lui la nonviolenza era finita, che se egli aveva potuto migliorare di qualcosa la sorte dei neri, spettava ora ai movimenti violenti di condurre in porto il lavoro che lui aveva incominciato. Pareva allora che il "Potere Nero", il partito delle "Pantere Nere", i "Musulmani Neri", fossero in grado, e solamente loro, di liberare i neri. Ci si poteva chiedere, già da allora, se era ragionevole credere che i neri ponendosi sul piano della violenza, sarebbero stati in grado di riuscire vincitori e di stabilire un rapporto di forza in loro favore.
Quando si pensa alla capacità di repressione di cui dispone il potere bianco, era realista per i neri situarsi sul piano della violenza per intraprendere la prova di forza?
Ora, accadde quello che poteva già essere previsto: i movimenti neri che si richiamano alla violenza si trovarono nella incapacità di mettere in opera azioni rilevanti all'infuori di qualche colpo di mano che potevano effettuare. La stampa ne parlò: il partito delle "Pantere Nere" che è stato il più rappresentativo di questo movimento violento è attualmente smantellato, si trova ad essere completamente disorganizzato sotto i colpi della repressione del potere bianco. Certamente Eldridge Cleaver può moltiplicare, da Algeri dove si trova in esilio, le dichiarazioni fracassanti contro il potere bianco, ma ciò non può venire in aiuto ai neri che sono negli USA; così pure Stokely Carmichael, che fu uno dei leader del "Potere Nero", che militò nelle file delle "Pantere Nere" e che si trova ora in Guinea, di là non può proporre ai suoi fratelli degli Stati Uniti che un impossibile ritorno verso la madre terra Africa.
Così nel nome stesso del realismo, non cadiamo troppo facilmente nella affermazione che solo la violenza può essere una soluzione?
Sapete pure che questo argomento è stato trattato da dom Helder Camara quando gli è stato chiesto se non sarebbe, almeno in un primo momento, necessario usare la violenza. "Certo, potremo avere qualche arma, ma il nostro avversario avrà sempre un numero maggiore di armi e più perfette delle nostre; è vano voler intraprendere su questo terreno la nostra prova di forza".
Il Padre Comblin è venuto a confermarci nell'aprile '72 le affermazioni di dom Helder Camara: "Una piccola parte dell'opposizione è entrata nella clandestinità, ha creato dei piccoli movimenti di guerriglia, ha lanciato delle operazioni di terrorismo. Questo ha provocato da parte del potere un apparato di repressione estremamente potente, che è riuscito praticamente non solo a contenere questa opposizione violenta ma anche a ridurla sempre più. E, in questo momento, il potere alimenta una psicosi d'angoscia che sta creando un "circolo vizioso del terrore" che coinvolge lo stesso potere: sentendosi minacciato, esso reagisce in maniera angosciosa, donde dei controlli sempre raddoppiati, cosa che mantiene nelle masse un sentimento di paura, la quale provoca a sua volta una più grande angoscia nei dirigenti... e così di seguito". ("Informations catholiques internationales", 15 aprile '72).
Forse che noi non possiamo arrivare a questa ipotesi di lavoro: la capacità di violenza degli oppressori sarà sempre smisuratamente più grande della capacità di violenza degli oppressi? Abbandonare il piano della giustizia per porci sul piano della violenza e', in fondo, un errore strategico: quando un movimento di resistenza ricorre esso stesso alla violenza, viene ad offrire all'avversario le ragioni di cui ha bisogno per giustificare la sua repressione.
Ogni dibattito pubblico che sarà aperto da atti di violenza non verterà sulle motivazioni politiche che hanno ispirato quegli atti, ma sui mezzi, sui metodi che sono stati utilizzati. L'azione armata attira l'attenzione dell'opinione pubblica sulla violenza che io commetto, non sull'ingiustizia che io combatto.
La forza della nonviolenza consiste nel rifiutare di offrire all'avversario i pretesti che giustifichino la sua repressione. Con questo non voglio dire che i movimenti nonviolenti non diano luogo a repressione - è certo che in una prova di forza che si prolungasse, ci sarebbe una repressione esercitata sul movimento nonviolento e la sua forza consisterà nella misura della capacità che avrà di resistere a questa repressione - ma questa repressione resterà senza vera giustificazione; essa arriverà al contrario a screditare quelli che l'esercitano e ad accreditare, per ciò stesso, il movimento.
La nonviolenza è preferibile
Data l'ignoranza e insieme il disprezzo nei quali è stata tenuta fino ad ora la nonviolenza, non è concepibile che essa sia in grado di risolvere tutti i nostri problemi e subito.
Molti conflitti si sono sviluppati in un crescendo di violenza dall'una e dall'altra parte; non è facile, a partire di là, tentare di intravedere una soluzione nonviolenta.
Ma noi potremmo almeno metterci d'accordo su questa ipotesi di lavoro: se la nonviolenza è possibile, allora essa è preferibile.
Ad un algerino che durante e dopo la rivoluzione algerina aveva ricoperto cariche di grossissima responsabilità nel governo rivoluzionario, chiedevo se credesse che la nonviolenza avrebbe potuto essere impiegata dal popolo algerino. Mi diede questa risposta paradossale: "In linea di fatto, Gandhi era il maestro al quale ci ispiravamo". Perché diceva questo? Precisamente perché Gandhi fu il primo a scuotere il giogo del colonialismo. Ci siamo lasciati prendere forse troppo dall'idea che il colonialismo britannico fosse un colonialismo dove il "fair-play" prevaleva sulla brutalità - ciò costituisce, invece, una contro-verità storica. Gandhi appariva in effetti ai popoli colonizzati come colui che, per primo, si oppose a questa oppressione. Ma, aggiungeva quest'algerino, non conoscevamo proprio niente di questa nonviolenza, non ne eravamo per niente preparati, e non ci era assolutamente possibile costruire la nostra lotta in questa prospettiva. Diceva ancora - ed è proprio questo che mi pare molto interessante: "attualmente mi interesso e studio sulla possibilità della nonviolenza, perché se la nonviolenza è possibile, sarebbe criminoso per un rivoluzionario usare la violenza".
Se la nonviolenza è, dunque, da preferire, ci spetta ora il compito di studiare le possibilità offerte dalla nonviolenza.
Bisogna ammettere che finora non l'abbiamo mai fatto. Ci siamo sempre accontentati di idee ricevute, di schemi prefabbricati e di vere e proprie caricature della nonviolenza; ciò, evidentemente, ci permetteva di condannarla più facilmente.
Se misuriamo gli investimenti che a destra o a sinistra sono stati fatti per la violenza, e se misuriamo gli investimenti che non sono stati compiuti per la nonviolenza, allora avremo la giusta misura di ciò che può essere fatto, cercando di discernere ciò che è possibile da ciò che non lo e'. Comunque, se la nonviolenza non può permetterci di risolvere subito tutti i nostri problemi, ci permette almeno di impostarli in maniera giusta.
E concludo con questa riflessione di Rilke: "entrando insieme nelle vere questioni, finiremo certamente con l'entrare insieme nelle vere risposte".

Jean-Marie Muller

(L'autore del testo è uno dei massimi studiosi e amici della nonviolenza; è stato pubblicato nel 1974 e tradotto in italiano nel 1980 per le cure di Matteo Soccio in Jean Marie Muller, Significato della nonviolenza, Edizioni del Movimento Nonviolento, Torino 1980, pp. 7-27).