Business militare. Il progetto nasce dalla mobilitazione dei portuali dello scorso anno contro il cargo saudita Bahri Yanbu. Uno strumento transnazionale di analisi dei movimenti e dei lavoratori per definire la geografia dei produttori di armi e i percorsi
Andrea Bottalico
Lo scorso 20 maggio la nave Bahri Yanbu, battente bandiera saudita, è attraccata al Ponte Eritrea del porto di Genova. Il cargo trasportava un carico di armi pesanti destinate all’Arabia saudita e si sospettava che avrebbe caricato altro materiale bellico in Italia.
Dopo un presidio e uno sciopero è stato impedito alla nave di effettuare le operazioni di carico. «Porti chiusi alle armi, porti aperti ai migranti», era scritto su uno striscione. Nelle stesse ore veniva impedito alla Sea Watch 3 di sbarcare migranti a Lampedusa su pressione del ministero degli Interni.
La costituzione di «Weapon Watch – Osservatorio sulle armi nei porti europei e del Mediterraneo» nasce dal blocco di quella nave saudita e dall’esigenza di esplorare la realtà dell’economia di guerra. All’origine del blocco vi è stata la mobilitazione che ha coinvolto diversi gruppi indipendenti in Belgio, Francia, Spagna, Italia, che hanno seguito i movimenti della «nave delle armi» fino al presidio sulle banchine del porto di Genova.
I lavoratori portuali sono stati capaci di far emergere le contraddizioni a partire da alcuni princìpi che per ragioni storiche sentono propri, facendosi carico di ciò che le autorità hanno ignorato. Piccole ruote di un gigantesco ingranaggio, i portuali avrebbero dovuto favorire con il loro lavoro un’operazione per la guerra dimenticata dello Yemen, condotta dall’Arabia saudita e sostenuta dai suoi alleati nel Golfo e in Occidente in violazione delle Convenzioni di Ginevra, della Carta Onu e del Trattato sulle armi convenzionali.
A questo va aggiunta la questione della sicurezza di chi lavora in porto movimentando merci pericolose come munizioni, bombe o altri esplosivi di Classe 1, secondo l’International Maritime Dangerous Goods Code. È noto agli addetti che le Bahri entrano in porto già cariche di merci esplosive, come potrebbe constatare l’Autorità di Sistema Portuale, a cui tocca il compito del monitoraggio in tempo reale delle merci pericolose giacenti o transitanti nel porto.
Weapon Watch sta pensando di presentare un esposto per la richiesta di accesso agli atti all’Autorità di Sistema del porto di Genova, che dispone del manifesto di carico delle navi in anticipo, allo scopo di esercitare ulteriore pressione.
Ma che le navi saudite contengano merci pericolose possiamo affermarlo in base alle testimonianze oculari dei lavoratori dei porti in cui sono state imbarcate munizioni, o a partire dai documenti che le ong hanno potuto ottenere utilizzando il Freedom of Information Act, o ancora guardando la rotta di queste navi, che riguarda spesso porti nordatlantici ed europei militarizzati o da cui transitano i maggiori flussi delle forniture militari verso l’Arabia saudita e gli Emirati (una rassegna si può leggere qui).
La presenza di armi in stiva è indirettamente confermata dalle strategie di occultamento della compagnia Bahri, che da tempo ordina ai comandanti delle navi di presentarsi in porto con i portelloni interni chiusi allo scopo di impedire ai lavoratori la vista delle merci trasportate.
Anche la presenza di personale di polizia durante le soste delle Bahri entro la cinta portuale testimonia i forti interessi, venuti alla luce con l’azione dello scorso maggio a Genova. Come ha sottolineato Carlo Tombola, coordinatore scientifico di Opal (Osservatorio Permanente Armi Leggere di Brescia), autore insieme a Sergio Finardi del libro La strada delle armi e tra i fondatori di Weapon Watch, è stato il movimento stesso nato dal blocco della Bahri Yanbu a decidere di dotarsi di uno strumento di conoscenza.
L’associazione nasce dunque dalla volontà di creare uno strumento trasversale di analisi e un luogo critico in cui discutere, confrontare idee, creare dibattito e conflitto. «Il nostro progetto – spiega Tombola – è definire una geografia dei produttori di armi che trasportano questa merce attraverso i porti, che rappresentano il perno della filiera logistica militare. Dobbiamo e vogliamo osservare le armi che transitano nei porti attraverso la creazione di una rete nazionale e transnazionale, sia perché è nei porti che queste merci diventano meno nascoste, sia perché i lavoratori dei porti e i marittimi sulle navi non amano maneggiare queste merci mortifere».